Una spiritualità anche per te (di Paolo Pisacane)

Religiose dei Sacri Cuori di Gesù e Maria
Premessa

Francesco Saverio Petagna ebbe la vocazione alla vita sacerdotale e seppe dare una risposta ferma e sincera a questa chiamata con l’aiuto di Dio. Tu potrai avere vocazione al matrimonio o alla vita consacrata, allo stato laicale o la stessa vocazione sacra: ebbene dovrai sempre, se vorrai agire cristianamente, dare la tua risposta sicura, affidandoti a Gesù e a Maria, confortato e illuminato dallo Spirito Santo.

Capitolo I : Dice sì al Padre con Gesù e Maria

Francesco Saverio è sacerdote a 23 anni, appena compiuti. Nato, infatti, il 13 dicembre 1812, è ordinato Ministro di Dio il 19 dicembre 1835, dopo otto anni di preparazione diligente ed edificante. Ha detto sì a poco più di quattordici anni e si è subito affidato alla Chiesa di Dio. Comprende che ora gli «tocca mantenere illeso il deposito della Fede»; è consapevole che dovrà impegnarsi a conoscere i fratelli e ad essere ad essi di modello nel parlare, nel conversare, nella carità, nella Fede, nella castità, nella dottrina, nella purità dei costumi, nella gravità «e che, come il buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle», così pure egli dovrà «porre la (sua) vita per i fratelli». Ora non deve darsi «pensiero di essere accetto agli uomini», deve stimarsi «l’ultimo» e uno «che serve» perché Chi lo ha eletto «venne appunto a servire».

Immolazione e servizio: ecco l’impegno sacerdotale conformemente alla vita vissuta fra gli uomini dal Verbo di Dio, Gesù Cristo, incarnatosi ad opera dello Spirito Santo. Dovrà diffondere, una volta diventato Sacerdote, la parola di Dio, fedelmente e instancabilmente. Dovrà predicare questa verità, socialmente importantissima, che «l’uomo che non vive una vita di spirito, a cui manca la grazia di Dio, non rispetterà giammai la libertà altrui, e neppure egli sarà libero davvero». Si farà guidare, nel suo ministero sacerdotale, da questa fondamentale considerazione sul comportamento dell’Uomo – Dio: molti anni di nascondimento e di preghiera e questa, poi, sempre curata anche negli anni di azione e di incontri con i singoli e con le moltitudini; grande disponibilità a fare del bene, a guarire infermi, a resuscitare morti, perché, prima guadagnati così i cuori degli uomini, fossero poi disposti ad accogliere la luce del Vangelo; impegno ad ottenere prima amore, poi accettazione convinta della dottrina celeste. E, sempre avendo a modello Gesù, il Petagna andrà in cerca dei peccatori, avrà misericordia per l’uomo colpevole e parlerà ad essi della infinita bontà di Dio; dirà loro che abbiamo e avremo per tutti i secoli vicino a noi, nelle nostre Chiese, quel Cuore divino, «vittima della sua ardentissima carità». Li inviterà a visitarlo con fiducia e ad accoglierLo sacramentato nei loro petti. Ricorderà a tutti, e l’avrà presente a sé che «l’altro validissimo sostegno nostro, dopo Gesù Cristo, nel presentarci che dobbiamo supplichevoli a Dio, è l’Immacolata Madre Maria». Questo vede, sente, si propone di fare il Sacerdote Petagna, subito dopo l’ordinazione, questo egli ha compiuto. Egli, chiamato da Dio, si è affidato alla chiesa, che ha gioito della sua vocazione, ne ha preso atto, l’ha protetta, l’ha ufficialmente riconosciuta. Lo studio della Sacra Scrittura ha rafforzato il suo intelletto, la vita comunitaria ha sviluppato in lui il vincolo d’amore fra i fratelli, e, la Fede, presente nel suo cuore, ne ha tratto vantaggio.
All’età di 38 anni è nominato Vescovo di Castellamare di Stabia.Si sente figlio!

Alla prima fondamentale chiamata alla vita dei consigli evangelici, il Signore misericordioso fa seguire un secondo invito per un servizio ancora più impegnativo e la debolezza del Servo di Dio Petagna si trasforma in fortezza, quando egli non dubita dell’onnipotenza amabile di Dio. «… in Dio confida l’anima mia, ché tutte le cose mi sono possibili in Colui che mi dà conforto: e son certo che, cominciata la buona opera, Egli la perfezionerà». Continua, da vescovo, il nostro Servo di Dio, a riporre in Lui, che è al centro della sua vita, che è il suo creatore e redentore, la sua sicurezza. Egli, anzi, da vescovo, ancor più ha fede nell’aiuto di Dio, pur usando doverosamente le sue capacità naturali e raddoppiando il suo impegno perché sa che «Il vescovo come amministratore di Dio, dev’essere irreprensibile: non arrogante, non iracondo. non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, padrone di sè, attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono». Insegna che «la vera fede . . . è più nel cuore che nell’intelletto; oppure è nell’intelletto insieme e nel cuore; nell’intelletto per farlo credere amando, nel cuore per farlo amare credendo; e, se il principio ne è la grazia, la forma e l’alimento ne è l’amore»che «il vero cristiano usa e si serve delle cose temporali e terrene senza perder mai di mira le eterne e celesti; queste, ansioso, aspetta confortato da forte speranza; queste brama con tutti gli affetti accalorato da fervida carità; queste insomma ha incessantemente nella mente e nel cuore tenendosi sin da ora cittadino del Cielo». Parla instancabilmente al clero e al popolo, visita la diocesi, frequenta le vie della città nei giorni festivi per incontri con i lontani e gli indifferenti, incoraggia la devozione alla Madonna, cerca di guadagnarsi il cuore di quanti sono stati affidati al suo esempio e al suo insegnamento, compie opere di carità. E’ consapevole che anche nel Vescovo deve risplendere «l’eroica virtù dell’abnegazione e del sacrificio esistente negli Apostoli, dei quali il Vescovo è successore e Vicario, non limitata al distacco dalla città propria o dalla patria, dalla famiglia e dagli amici, all’accettazione di disagi e pericoli, alla compartecipazione ai dolori dei fratelli, ma estesa – se necessario – al sacrificio anche cruento della propria vita».

In data 3 gennaio 1859 Mons. Petagna manda alla Sacra Congregazione del Concilio una dettagliata relazione sullo stato della Chiesa e della Diocesi a lui affidate dal 20 maggio 1850 e ne riceve risposta in data 20 luglio 1860. Gli si dà atto di una esposizione accurata e chiara che ha fatto conoscere tutti gli aspetti della situazione di quella Diocesi e gli si trasmette l’elogio della Congregazione. Questa «ha osservato attentamente con quanta sollecitudine tu ti sforzi di compiere il tuo dovere di Vescovo, con quanto zelo cerchi di ottenere ciò che serve alla Chiesa, al Clero e ai fedeli, specialmente ai poveri, e con quanta vigilanza ti adoperi, affinché gli ecclesiastici vivano una vita conforme alla loro vocazione, i Religiosi e le Religiose pratichino l’osservanza della loro Regola e il popolo sia dedito alla Religione e ne osservi i precetti. Perciò la Sacra Congregazione m’incarica di darti una lode degna della tua eccellenza».Mons. Petagna trova pace spirituale nell’espletare con amore il suo servizio episcopale anche nella sofferenza, nella incomprensione, sotto le varie accuse infondate. La sua spiritualità è autenticamente cattolica. Al primo piano è Dio, uno e trino, ma, se primaria è la importante presenza di Dio, non è annullato l’uomo, che è soggetto della spiritualità. In lui troviamo teocentrismo antropomorfismo, in un accordo che rasserena. Per lui è lo stesso dire cristocentrismo, perché egli si ferma a CRISTO non certo in quanto uomo, ma in quanto seconda persona della Trinità e mediatore universale. Lo ha detto Cristo: «lo e il Padre siamo una sola cosa». (Gv. 10,30). Nel servo di Dio, Francesco Saverio Petagna non compare affatto l’aut aut, o Dio o l’uomo che non si accorda con la fede, non corrisponde all’insegnamento di Cristo. L’unione Dio-uomo, meglio, la fusione fra Colui che chiama e il chiamato e viceversa, è incontro di due volontà, è intesa di amore per un’esistenza valida, operosa, costruttrice, pacificatrice. Dio onora l’uomo, che liberandosi del suo orgoglio, si sente felice dell’amicizia con Dio, che dà senso e valore alla sua vita. Però è probabile che si dubiti di poter seguire Gesù. Ebbene, qui è questione di confidenza, scrive Mons. Petagna: «La confidenza in Dio, una confidenza sincera, semplice e tenera, è la disposizione che apre l’anima degli uomini ai benefici divini . .. L’innocenza assai più della scienza, è sicura di elevarsi sino a Dio». Confidenza viene da fiducia e questa da stima o speranza in qualcuno o qualcosa, il che presuppone insicurezza ed umiltà. Allora si cerca un sostegno, un amico a cui dare il cuore. E Dio, da parte sua, vuole il nostro cuore. «Gesù Cristo si dirigeva al cuore – dice Mons. Petagna – prima di dirigersi alla mente, e d’ordinario cercava guadagnar quello per farsi scala a questa e disporla ad abbracciare la sua dottrina». Ed aggiungeva: «E’ il cuore .. . che bisogna guarire, purificare, riscaldare. E’ nel cuore che bisogna gustare la Religione di Gesù Cristo per vederne il valore». E’ predicatore e apologista il servo di Dio Francesco Saverio Petagna. La Bibbia gli è familiare. Legge le opere dei Padri della Chiesa e quelle del suo tempo su problemi di religione. Si tiene informato in campo teologico e fisiologico. E’ dotto, ma la vera forza spirituale gli deriva dal suo amore al Sacro Cuore di Gesù. A questo unisce il Sacro Cuore di Maria, il cuore di Colei che ha creduto ed ha acconsentito ad essere Madre del Redentore e di tutti gli uomini.La Croce fonte di luce e di vitaLa vita di Mons. Petagna prende luce e calore ai piedi della Croce. Ma è difficile, se non impossibile, salire sul Calvario e starsene con il Crocifisso da soli. Ci vuole l’aiuto di Maria. E questo aiuto egli cerca e, avutolo, si adopera a non perderlo. Ci furono le tenebre, quando il Redentore chinò il capo e morì sulla croce. Ma da quell’evento incomprensibile a mente umana, che sia chiusa al valore immenso dell’immolazione, come puro atto d’amore, e, quindi, non amato, trascinato, rifiutato, deriso, nasce luce che illumina la vita difficile dell’uomo, che sa leggere agevolmente e intraprendere rettamente i fatti della storia individuale e collettiva. Gesù da crocifisso ci fa saggiare la preziosità della sua vita. A ben guardare Egli è il vincitore, non il vinto. Egli si è fatto inchiodare su quel legno; ha lasciato fare; ha permesso che lo si trattasse crudelmente, per poter essere la vittima cruenta di un immenso amore. I suoi anni di vita terrena, i suoi insegnamenti, i suoi incontri con la gente, i miracoli, i richiami, la sua instancabile ricerca del peccatore da salvare, sono il poema che c’incanta, ma il sigillo del suo amore è lì sul Golgota. E spaventa quella morte? Spaventa, in genere, oggi, la morte, presi come siamo da questa vita e più dimentichi dell’al di là, e non se ne vuol parlare; una fine straziante come quella atterrisce. Ma, perché le mani e i piedi sono perforati, le ossa scricchiolano, la corona di spine si conficca nel capo che batte sul legno? Per questo solo? o perché il concetto di una vittima prescindendo dal tipo di morto, ci risulta inaccettabile? Accogliere Cristo come vittima, non è impegnarci a capovolgere la comune visione della vita? Lui ci ha realmente amati, perché si è immolato per noi. Se ne condividiamo l’insegnamento, non dobbiamo anche noi sacrificarci per i nostri fratelli? Comprendiamo che è così ma la cosa non ci conviene. La sua dottrina sociale ci va bene, ma già al Getsemani lo salutiamo. Se la veda Lui di qui al Golgota! La via Crucis non ci piace! E, invece, il servo di Dio Francesco Saverio Petagna, che crede in Cristo da Betlemme al Calvario, trova alla scuola della Croce l’insegnamento vero e autentico del Cristianesimo. Si diventa veramente cristiani interpretando la morte di Gesù, però non con la mente soltanto, con la vita, come sa fare il Petagna. Pensando ai tormenti che preparano e scandiscono le ultime ore di vita terrena di Gesù, si scorge la sua volontà di espiazione, in perfetta obbedienza al piano della salvezza fissato da Dio.Egli si fa Vittima.

Al padre suo Egli dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato” (Eb 10,5) e questo mio corpo io offro ai tormenti che assaporerò tra gli insulti e lo sconforto dell’abbandono durante l’agonia. Agli Apostoli ha ripetuto, come scrive Mons. Petagna, “non potersi mostrare più grande amore che dando la vita per le proprie amate pecorelle, così anche egli l’avrebbe data un giorno per le sue, ch’egli infinitamente amava”. Non ha parlato di amore, ha dimostrato cosa sia il vero amore, dando la vita per noi. “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: EGLI ha dato la vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”(Gv 3,16). Gesù non ha espiato i suoi peccati, ma i nostri. Ci ha salvati e contemporaneamente ci ha insegnato che non vi può essere vera espiazione senza sacrificio e che vi è una duplice espiazione: quella per i propri peccati, quella per i peccati altrui. Duplice espiazione che deve sentire nella sua carne come nel suo spirito chi seriamente intende seguire le orme del nostro Gesù. E’ chiaro, però, che si deve partire dal concetto di peccato per avvertire la necessità della riparazione e, se in molti è scomparso questo concetto, a maggior ragione cresce l’impegno della riparazione e della espiazione in chi ce l’ha, a salvezza dei fratelli peccatori ed incoscienti. Così l’interpretazione della morte di Gesù ci porta alla teologia della Vittima. Quel divino sacrificio, chiarito nel pensiero, orienta e sostanzia la nostra vita. Ci porta all’immolazione insieme con la vittima divina. Ci fa diventare autentici cristiani. L’unione al Crocifisso ci consente di amare come Lui, tanto da accettare il sacrificio della nostra vita. Egli solo fortifica e valorizza il nostro spirito di espiazione. Con Lui si ha la vita di vittima e questa altro non è che la vita cristiana stessa.

Capitolo II:  E’ servo fedele

Vive il Servo di Dio Petagna in età risorgimentale. Nasce due anni prima che iniziasse i suoi lavori il Congresso di Vienna, muore undici mesi dopo Vittorio Emanuele Il. Ha otto anni all’epoca dei moti napoletani del 1820; diciotto e diciannove quando in Francia Carlo X viene cacciato e sale sul trono Luigi Filippo d’Orleans (1830), quando si ha la rivoluzione in Belgio e in Polonia (1830) e durante i moti carbonari a Modena e negli Stati vicini (1831). Vive da sacerdote il 1848 e il 1849, è già vescovo da due anni quando Cavour diventa Presidente del Consiglio (1852). Segue gli eventi che porteranno all’unità d’Italia con trepidazione per il diffondersi d’una tendenza anticlericale, risente le conseguenze della spedizione dei Mille guidata da Garibaldi. E’  in esilio dal gennaio 1861 al dicembre 1866; a Marsiglia fino al 13 ottobre 1865, poi a Roma. E’ ritornato nella sua Diocesi di Castellammare di Stabia, è presente al Concilio Vaticano I, quando tramonta il potere temporale del Papa con la presa di Roma del 20 settembre 1870. A due anni dalla caduta della Destra e, quindi, dall’ascesa della Sinistra al potere (1876) ritorna alla Casa del Padre che ha amato e fatto amare. Serenitàservizio sacerdotale pastoraledisimpegno politico contingente, presenza vigile nella storia degli uomini, appartenenza al Regno di Dio: tutto questo si ricava dalla sua vita collocata in anni di radicale trasformazione della società italiana in compagnia di quella europea. Agli uomini del suo tempo, affascinati dalle spinte alla libertà, il Vescovo Petagna ricorda il significato di libertà per un cristiano. Lo avrà fatto sicuramente, appena diffusosi per le piazze questo grido, quando se ne comincia a sostenere il principio e se ne scrive diffusamente. Però noi possiamo riferirci al documento ufficiale del 1864 (la sua istruzione pastorale da Marsiglia) perché ne siamo in possesso e in esso vediamo affrontato lo spinoso problema.

Libertà

Da Marsiglia, dove è in esilio, privato della libertà di esercitare il suo servizio episcopale nella chiesa locale a lui affidata, quella di Castellammare di Stabia, egli si rivolge ai suoi figliuoli diletti, ai suoi diocesani, testimoni del “vero e del buono” che si trovano «in quella vantata libertà». Essi ne hanno fatta esperienza! Precisa che non vuole dire lui quanto di vero e di buono sia «in quella vantata libertà» essendo il campo della politica affatto estraneo ad una «trattazione» da parte sua. Rimarrà nel campo di sua competenza: le «Sacre Scritture», prese a riferimento, dai banditori politici del principio di libertà, anzi invocate da loro, per ingannare i semplici. Da Dio Padre, come dice lsaia (42,6-7). è affidato a Cristo il compito di aprire gli occhi ai ciechi e di fare uscire «dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre». Poi, «nella pienezza dei tempi” sempre Cristo è venuto fra gli uomini per renderli liberi. «Voi infatti fratelli siete chiamati a libertà» scrive ai Galati l’Apostolo Paolo (Gal 5,13). Il quale subito aggiunge: «Purché la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri». Eravamo schiavi, osserva Mons. Petagna «per depravata natura» e Cristo ci ridonò a nuova e libera vita; ora siamo tornati servi della «concupiscenza dei sensi» che ci trascina in basso, mentre «ragione e coscienza» faticano per trascinarci in alto. Del resto è proprio della natura dell’uomo l’interna lotta fra la carne e lo spirito con la prevalenza della carne, quando non interviene la grazia di Dio a far prevalere la sua legge. La vera schiavitù è quella delle proprie passioni e, quindi, la vera libertà è solo quella che ci dà Dio. E alle passioni sono sottomessi quasi sempre quelli che promettono di dare agli altri la libertà. Il sangue prezioso dell’Uomo-Dio è stato il prezzo pagato per il nostro riscatto dalla schiavitù del peccato e l’acquisto della dignità di figli di Dio. E «la dignità dell’uomo richiede che egli agisca» … non per un cieco impulso interno o per mera coazione esterna. Ma tale dignità l’uomo l’ottiene quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene e si procura da sé e con sua diligente iniziativa i mezzi convenienti. Questa ordinazione verso Dio, la libertà dell’uomo, poiché è stata ferita da peccato, non può renderla effettiva in pieno se non mediante l’aiuto della grazia di Dio» (Vat. II IV,17). «Gesù Cristo medesimo diceva ai giudei la liberazione da tanto servaggio (dai lacci del diavolo) stare appunto nel seguire la sua dottrina, le sue massime, la sua verità» così Mons. Petagna. E il Vaticano Il: «Il Figlio di Dio con la sua morte e resurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e dalla morte»(Vat. II,III,6). «Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimarrete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?» Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 31-34). Ora, dice Mons. Petagna, stando alla dottrina dell’apostolo Paolo che chiama la “cristiana libertà” “frutto dello spirito” distinguendola dal libertinaggio che chiama “opere della carne”, “trionfare del vizio ed amare la virtù forma la vera libertà cristiana. L’uomo che non vive una vita di spirito, a cui manca la grazia di Dio, non rispetta giammai la libertà altrui, e neppure lui sarà mai libero davvero”. “Senza il soccorso della grazia l’uomo il più democratico del mondo non sarà mai libero”. “Le parole libertà ed uguaglianza” – sparse a tutti i venti – “ dapprima misteriose”  furono tradotte in “guerra a Cristo e al suo culto”. Con l’esilio si è voluto interrompere il colloquio del Vescovo con il suo Clero e i suoi fedeli. Si è voluto colpire non l’uomo ma il vescovo, per disorganizzare la Chiesa locale. E Mons. Petagna ne soffre. In lui, esule, non c’è la stizza della sconfitta o l’amarezza della perdita del potere; c’è la nostalgia profonda unita alla preoccupazione, c’è la considerazione che è stato interrotto un rapporto spirituale diretto, c’è tristezza per una missione voluta da Dio e fermata dall’uomo.

Tranquillità nell’angoscia

Ricorda Mons. Petagna di essere stato sollecitato da molti a partire, perché temevano per la sua vita, ma di essersi rifiutato. «Sordo alle voci che mi spingevano ad allontanarmi dalla Chiesa, confidatemi a reggere dallo Spirito Santo, fui duro al partirmi e mi tenni fermo fra voi». Non abbandona il suo posto, perché lo ha già ricevuto in affidamento dallo Spirito Santo. Ricorda le parole dette da Paolo, ad Efeso, agli anziani della Chiesa, nel suo commovente commiato: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale Io Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue».(At., 20,28). Non è il reazionario borbonico, l’antipatriota che va condannato destituendolo dall’alto incarico, è il vescovo fedele alla chiamata di Dio, che bisogna rimuovere, perché ostacola le mire anticlericali di settari in guerra con la Chiesa di Dio. «La fedeltà al mio posto fruttavami ingiurie oltraggi e minacce di violenze maggiori; ma Iddio ne’ suoi misericordiosi disegni non volevami compagno al mio degno Metropolitano in obbrobriosa cattività». Parole chiare ai fini di una retta interpretazione del momento storico e, nello stesso tempo, vere per esatta rispondenza ai fatti, perché scritte in una lettera pastorale pubblica con serena dignità, per amore di giustizia e paterna sollecitudine verso i figli amatissimi. «La mia coscienza era calma e tranquilla, ma l’animo non poteva a meno d’essere oppresso da angoscia perché erami acerba la separazione da voi». E, novello Giobbe, il suo animo angosciato si apre alla speranza. “Ma ecco, fin d’ora il mio testimone è nei cieli, li mio mallevadore è lassù“.

In terra straniera

Raccomandava al Signore questa porzione del gregge affidatomi, alla Vergine Immacolata, al Protettore S. Catello e agli altri tutelari della mia Chiesa, confidava con fervide preghiere la cura di voi tutti, delle vostre anime, della vostra fede; della vostra pietà, dei vostri costumi, e partivami colla dolce lusinga di starmi fra poco novellamente fra voi”. Altro brano che testimonia la sua fede e la sua serenità di animo, nel quale egli inserisce questa espressione di Salomone: «Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode». Il servo di Dio Petagna ha confidato sempre nel Signore in tutti gli anni di sua vita, durante tutte le attività, le difficoltà, le responsabilità, dovunque è stato, là dove ha lavorato e testimoniato il Vangelo. Sicché anche da Vescovo e forse, proprio in tale suo servizio ha confidato di più in Dio, e la Provvidenza di Dio ha vegliato su di lui. Questo gli ha dato serenità. Tuttavia lo rattrista e lo preoccupa il prolungarsi del suo “pellegrinaggio”. Tristezza ed apprensione gli vengono dal saper senza guida la sua Diocesi, perché, per quanto si riferisce a se stesso un sacerdote, dovunque si trovi a vivere, “sempre trovasi nel dominio di suo padre, perché la intera terra è del Signore, e dappertutto trova una patria, dei fratelli, un ministero d’amore da esercitare”, anche se un Vescovo è chiamato a confermare i fratelli nella fede in una precisa comunità e, quindi, staccato da questa, è privato di un suo preciso compito. E, così, come i Leviti, deportati sulle rive dell’Eufrate e sottoposti ad umiliazioni, sente di aver dovuto appendere la sua cetra ai salici di quella terra, non potendo cantare i canti del Signore in terra straniera. (Sal. 136). Non esagera Mons. Petagna né è in sintonia col suo tempo, non con il nostro, perché la Chiesa, oggi conferma quello che era in vigore nella seconda metà dell’Ottocento e anche prima, e, cioè, che “la diocesi è una porzione del Popolo di Dio, affidata alle cure pastorali del Vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore, e, per mezzo del Vangelo e della SS. Eucarestia, unita nello Spirito Santo, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è presente e opera la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica”. Questa fusione scompare quando è assente il Vescovo e questi non può assolvere al suo compito, se distaccato da quella porzione del Popolo di Dio. Mons. Petagna soffre per il colpo dato alla fede dalla “seducente parola”, i cambiamenti politici in se stessi non lo interessano. E’ quel risveglio di Lucifero che lo tormenta. La “parola seducente” si oppone alla parola illuminante della Chiesa. Grande è l’indignazione dei “liberi pensatori” ai messaggi del papa. Il quale non è libero di parlare per quelli che propugnano la libertà di pensare e di parola. E Mons. Petagna non manca di sottolinearlo. Egli da Marsiglia indirizza al Clero e ai fedeli due lettere pastorali: una in data 1864, l’altra nel 1865. La prima tratta della libertà, della religione, del protestantesimo, del Papa nella prima parte; della fede, della carità e della preghiera, nella seconda. Si commenta nella lettera del 1865 l’Enciclica “Quanta cura” del 1864 di Papa Pio IX e si parla dell’annunciato Giubileo come momento forte di favori celesti da preparare con diligenza e vivere con profitto. Queste due istruzioni sono rivolte ufficialmente alla Diocesi Stabiese da chi sente di avere diritto e dovere di esercitare, come può, da lontano il suo ufficio. Umilmente sempre, fidando non in sè, ma in Gesù Cristo, rispondendo alla chiamata di Dio. Non c’è autoritarismo, c’è rispetto e fedeltà per un impegno gravoso nella consacrazione a Vescovo. Mons. Petagna è il servo fedele. Egli sa che non è stato esonerato dal suo incarico. E’ stato messo, piuttosto, nella dolorosa situazione di non poterlo eseguire pienamente e direttamente. E sa che i suoi diocesani ne soffrono. Non è un contemplativo in assoluto il servo di Dio Francesco Saverio Petagna. E’ attivo, con fedeltà e prudenza, in attesa del ritorno del suo padrone come il servo fidato del Vangelo. (Mt. 24-45,51). Avverte il suo dovere, sorveglia, insegna, santifica, consiglia, guida. E fa tutto questo, perché vede presente Dio, così come il servo del Vangelo è consapevole della sua responsabilità e lavora bene come se il suo padrone fosse presente. E lo compie bene, perché lascia l’iniziativa a Dio, perché è in ascolto della parola di Dio, perchè non dimentica mai che Dio lo ha scelto e chiamato.

Disponibilità

Vede anche nell’esilio un momento di grazia per lui. Può essere utile a Marsiglia ed è subito disponibile: predica, confessa, amministra il sacramento della cresima. Avverte, perché ha fede incrollabile, che è istrumento della provvidenza e studia per esserlo nel modo migliore, con umiltà, docilità, riservatezza, prudenza. Ce lo dice il suo comportamento generale e, in caso particolare, la sua cauta condotta nel rapporto caritatevole e paterno con la pastorella di La Salette. Non la incontra subito dopo la visione che ella ha avuto della Madonna, ma a diciannove anni già trascorsi da quell’avvenimento. E, a quel tempo, Melania non è più la piccola veggente; ha trentaquattro anni; è stata in Inghilterra, a Marsiglia una prima volta, nell’isola di Cefalonia, a Marsiglia una seconda volta e qui, dopo due anni di permanenza, incontra Mons. Petagna. Dall’incontro di Melania con Mons. Petagna viene una richiesta che riceve un consenso. Melania chiede di poter seguire in Italia il Vescovo, ora in esilio, quando farà ritorno nella sua sede vescovile: questi acconsente. Ci troviamo davanti a dei fatti accettati dagli stessi protagonisti e vissuti serenamente, in lodevole comportamento. Abbia pure Mons. Petagna stesso prospettato questa soluzione a Melania, nulla cambia. Si può vedere qualcosa di utile in questo incontro, non cercato da Mons. Petagna né, pare, da Melania, e per la vita della veggente e per lo sviluppo dello stesso apostolato di Mons. Petagna e un rafforzamento della sua devozione mariana, alla luce della teologia delle vittima. Tutto il messaggio mariano a la Salette pare nutrire il terreno sul quale è fondato e scaturito l’istituto delle Vittime dei Sacri Cuori, che ha preso, successivamente, il nome di Istituto delle Religiose dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria. Certo il Servo di Dio Francesco Saverio Petagna sentì sempre con evidenza che il concetto di Vittima è centrale nel progetto della Redenzione e si fece lui stesso vittima con i Sacri Cuori di Gesù e Maria, ma è evidente che lo trovò confermato nel simbolismo dell’apparizione di Maria a La Salette, vivamente a lui ripetuto e presentato dalla veggente Melania che, dopo il privilegio di essere stata prescelta a depositaria del messaggio mariano ebbe bisogno di comprensione e conforto, per vivere la sua vita di vittima in unione con la vera Vittima che è Gesù. Un esilio porta ad un incontro; la fine di quell’esilio porta ad un altro esilio. Questo è scelto, ma c’è la croce nell’uno e nell’altro. Prima Mons. Petagna, poi Melania, entrambi soffrono per l’esilio. L’accettano però cristianamente. Melania non viene in trionfo a Castellammare, né con una prospettiva di vita felice. Sia lei sia Mons. Petagna non fantasticano. Nel loro comportamento c’è prudenza e amor di Dio. Possiamo serenamente avvertire la presenza di Dio nell’incontro di Marsiglia e nell’evolversi successivo delle semplici vicende legate al nome di Melania residente in Italia e morta in Italia.

Capitolo III : Vive l’apparizione mariana a La Salette

Francesco Saverio Petagna sta per compiere i suoi trentaquattro anni, quando la Vergine Maria appare e parla a La Salette. Egli è nato il 13 dicembre 1812 e l’evento prodigioso è del 19 settembre 1846. Incontrando Melania a Marsiglia nel 1866 egli ancor meglio vive quell’apparizione mariana già a lui nota e, senza soste, fino al 18 dicembre 1878, giorno della sua morte. La vive nel suo messaggio di amore e di dolore. La Salette è il nome della località delle Alpi francesi, dove la Vergine si è presentata a Massimino Giraud di 11 anni e a Melania Calvat quasi quindicenne. Li ha chiamati a sé ed ha parlato con loro una sola volta. Nel silenzio del valloncello, sul cui fondo scorre l’acqua del Sezia, Massimino e Melania sono intenti a custodire il bestiame al pascolo. Sono le prime ore del pomeriggio. Melania e Massimino attraversano il ruscello alla ricerca delle vacche che si sono allontanate a loro insaputa. I due ragazzi si sono rifocillati e, poi, addormentati, poco dopo il mezzogiorno. Percorrono un breve tratto di terreno in salita e le trovano adagiate a terra. Ridiscendono verso il ruscello e Melania vede “un chiarore come di sole, ma ancor più brillante, non però del medesimo colore”. Chiama Massimino e gli indica il chiarore che è dalla parte di una piccola fontana. A questo punto appare ad essi, in mezzo alla luce, una Signora. Così i due ragazzi chiamano la Vergine, perché soltanto a sera, quando raccontano ciò che hanno veduto ed ascoltato, si fa loro osservare che hanno visto la Madonna. La Signora è seduta “sopra un mucchio di sassi, col volto tra le mani”. Melania si spaventa e lascia cadere il suo bastone; Massimino le consiglia di riprenderlo. Egli è pronto, da parte sua, a dare bastonate alla Signora se vorrà far loro del male. Ma la Signora si mette in piedi, incrocia le braccia e dice loro: “Avanzatevi, miei ragazzi, non abbiate paura: sono qui per darvi una gran nuova”. Essi si avvicinano alla Signora, che, piangendo, così parla: “Se il mio popolo non si vuole sottomettere, sono costretta di lasciare libera la mano di mio Figlio. Essa è così forte, così pesante, che non posso più trattenerla. E’ gran tempo che soffro per voi! Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni, debbo pregarlo costantemente; e voi altri non ne fate conto. Voi potrete ben pregare, ben fare, giammai non potrete compensare la sollecitudine, che mi son data per voi. Vi ho dato sei giorni per lavorare, mi sono riservato il settimo, e non si vuole accordarmelo. Questo è quello che rende tanto pesante la mano di mio Figlio”. Fa notare che già è venuto meno il raccolto delle patate e che non sarà buono quello prossimo; annuncia che vi sarà una carestia e che moriranno molti fanciulli. Ma la conversione degli uomini farà cambiare ogni cosa e anche le pietre produrranno grano. Quindi domanda a Melania e a Massimino se dicono le orazioni e, alla loro risposta che non le dicono bene, li esorta a non farlo più. Devono recitare almeno un Padre nostro e un’Ave Maria. Considera con dolore che “alla Messa non vanno che alcune donne vecchie, e le altre lavorano alla Domenica tutta l’estate, e, all’inverno, i giovani, quando non sanno che fare vanno alla Messa per mettere in ridicolo la religione. In quaresima si va alla macelleria a guisa di cani” Fa, successivamente, ricordare a Massimino che ha già visto del grano guasto, quindi dice: “Ebbene, miei ragazzi, voi lo farete sapere a tutto il mio popolo”. Passa il ruscello e, senza rivolgersi ai ragazzi, ripete: «Voi lo farete sapere a tutto il mio popolo». Sale poi fin dove poc’anzi sono state trovate le mucche dai ragazzi. Cammina sull’erba senza toccarla coi piedi. I ragazzi la seguono; ad un certo punto Melania le si trova davanti, Massimino di fianco. La Signora si solleva di più di un metro dal suolo e resta “così sospesa nell’aria un momento”. Rivolge uno sguardo al cielo, poi alla terra; scompare la sua testa; scompaiono le braccia, poi i piedi; sembra fondersi, mentre per poco resta nell’aria un chiarore. E, allora, Melania chiede a Massimino: «E’ forse una gran santa?» e Massimino, quasi non dubitandone, si rammarica che non le abbiano detto di condurli con lei: poi, alla osservazione di Melania: «E se ci fosse ancora?» mette di slancio una mano in quel chiarore, ma non tocca nulla. Ancora per un poco i due guardano intorno, poi, convinti che si è nascosta, come dice Melania, per non far vedere dove va, si rimettono a guidare le vacche. L’aspetto e l’abito della Signora sono descritti da Melania e da Massimino, separatamente. “senza variazione alcuna, né per la sostanza e neppure per la forma”. In tutto il racconto e a tutte le domande, alle quali sono sottoposti i due ragazzi danno uguali risposte con estrema sicurezza. C’è da dire ancora che essi, mentre ritornano, dopo l’apparizione alle loro case, si interrogano su di un particolare che li ha molto incuriositi: essi hanno visto, ad un certo momento, muoversi le labbra della gran Donna, ma non hanno udito la sua voce e questo non contemporaneamente per loro due, perché, quando Melania non ha udito le parole della Signora, pur vedendola parlare Massimino ha percepito ed ascoltato le parole a lui dirette, e, quando è stato Massimino a vedere che la Signora parlava e a non sentire nulla, Melania allora è stata in ascolto delle cose a lei solo affidate dalla Signora. Così si rendono conto che è stato conferito un incarico preciso a ciascuno di loro, separatamente; è stato dato loro un messaggio in segreto. Ed essi rendono di pubblico dominio quanto è stato detto loro contemporaneamente con l’incarico di divulgarlo subito, mentre non comunicano il resto, pur avvertendo che altro è stato rilevato a ciascuno di loro due separatamente. Grande diventa la curiosità per i segreti, ma essi non si lasciano sfuggire niente, pur sottoposti a “preghiere, minacce, ingiurie, regali e seduzioni d’ogni maniera”. “Essi sono impenetrabili”. Però, quando ricevono ordine dal Vescovo di Grenoble di far conoscere il loro segreto al “Vicario di Cristo”, a Pio IX, obbediscono.

Significazioni.

In quest’apparizione colpiscono le lacrime della Vergine, il suo atteggiamento dimesso, la sua preoccupazione, il ricordo del Calvario nel simbolismo degli strumenti necessari per inchiodare e schiodare Gesù, quella catena che tiene legata la Madre al Figlio nell’immolazione di amore, l’invito pressante, materno, a cambiar vita, a pregare, a farsi vittima con la vera Vittima divina. C’è ancora, qui, a La Salette, un’investitura missionaria per Melania e Massimino. Per quanto poi riguarda il servo di Dio Petagna, La Salette è piena conferma del suo fondato timore sui danni sicuri per una società senza Dio ed incentivo ad una vita di penitenza e di offerta in compagnia dei Cuori di Gesù e di Maria. E’ in dubbio che Mons. Petagna se ne sta alla rivelazione pubblica che si è chiusa “dopo l’epoca apostolica” e sa che le rivelazioni private, anche riconosciute dalla Chiesa, non ci impegnano per obbligo. Ma l’evento prodigioso e la diretta conoscenza della pastorella, scelta dalla Vergine con Massimino a testimone della sua apparizione, incidono notevolmente su di lui. Confermandolo nella visione cristiana del sacrificio riparatore.