Fuoco di Pentecoste – Garibaldi dittatore – l’esilio (di don Adolfo L’Arco) (IV parte)

Religiose dei Sacri Cuori di Gesù e Maria

Questo era il clima religioso-politico quando Garibaldi il 7 settembre entrò trionfante a Napoli. Molti, che si beavano nei sogni di libertà, vollero imitare la vicina capitale e tributare anch’essi un trionfo al dittatore. Un elemento principale doveva essere il Te Deum cantato in Cattedrale. Come si accordi il Te Deum con i miscredenti è davvero misterioso, eppure esso faceva parte della coreografia trionfalistica. Il Vescovo dovette cedere alle pressioni delle autorità municipali e permise che si tenesse la funzione in Cattedrale, ma egli non intervenne. Quell’assenza fu valutata come una dichiarazione di guerra e l’aria di Castellammare non fu più salubre per il Vescovo, anche perché nel luglio precedente era corsa voce che nel vescovado si organizzasse una reazione. Molti costituiti in autorità, già allora, praticarono molto bene la politica del Gattopardo: “perché tutto rimanga tutto deve cambiare”. Un esempio: due giorni dopo l’ingresso di Garibaldi a Napoli, il sindaco di Castellammare Raffaele Vollono diede ordine di inalberare sul molo la bandiera dei Savoia, salutata da ventuno colpi di cannone; eppure questo sindaco soltanto un mese prima aveva giurato fedeltà al re Ferdinando II di Borbone. A sua volta il comandante della marina borbonica, Giovanni Vacca, consegnò ai garibaldini il vascello “Monarca” che era un capolavoro delle maestranze del famosissimo Cantiere di Castellammare. Una nave così moderna e così bella i garibaldini non la sognavano neppure. Poi il traditore, con la massima disinvoltura, passò come ufficiale nella marina del Regno d’Italia. Il dittatore delle Due Sicilie Giuseppe Garibaldi, senza frapporre indugi, dichiarò subito “beni nazionali” tutte le proprietà dei Vescovi. La legge si ammantò anche di generosità perché riservò qualche cosa per il mantenimento del basso clero. In realtà, come nota il De Sivo, si voleva “tentare lo scisma dei preti minuti”. Ma può essere “prete minuto” il sacerdote di Gesù? Proprio questi “preti minuti” amarono appassionatamente mons. Petagna. Il Vescovo ordinò al clero di non lasciarsi coinvolgere in cose estranee al servizio sacerdotale. Ma i liberali massoni facevano, una volta tanto, proprie le parole di Gesù: Chi non è con me è contro di me. Gli antiborboni, non potevano perdonare al Vescovo che con straordinaria pompa avesse celebrato i funerali del Re Ferdinando II, morto a Caserta il 22 giugno 1859. Ma lo storico Celoro Parascandolo è ben informato, quando afferma: “Il Re Ferdinando II di Borbone fu instancabile benefattore delle opere caritatevoli diocesane stabiesi”. Era evidente che il Vescovo nutriva riconoscenza per Ferdinando II. Ancora una volta prestiamo attenzione al giudizio dello storico Celoro Parascandolo. Già nel luglio 1860 “il Regno delle Due Sicilie fu in potere di quei felloni, che ovunque ordivano nuove trame e attuavano eclatanti tradimenti”.

In esilio
Il nostro Vescovo in quei torbidi politici, per salvare la vita avrebbe dovuto perdere la libertà, lasciandosi strumentalizzare dai nemici della Chiesa. C’era stato un precedente, che certamente influì sull’animo del Petagna, devoto di Pio IX. Il Sommo Pontefice il 24 novembre 1848 era fuggito da Roma e si era rifugiato a Gaeta. Nell’ora del vespro del giorno 25 settembre 1860 il nostro Pastore partì per Marsiglia, imitando, sia pure inconsciamente, il suo amatissimo Pio IX. Perché Marsiglia? “La nuova residenza fu stabilita dai Dicasteri Pontifici nei mesi di aprile-maggio dell’anno 1860”. Per il nostro esule fu scelta Marsiglia per due motivi; primo: mons. Petagna parlava e scriveva alla perfezione il francese; secondo: il Vescovo di Marsiglia era molto malandato in salute ed aveva bisogno di un coadiutore che ben lo sostituisse, senza umiliarlo. L’esule s’imbarcò a Civitavecchia. Sul battello un marinaio ad alta voce lo insultava, dicendo di non sapere come mai non si facesse presto ad impiccare vescovi e cardinali: era la prima spina dell’esilio! A Marsiglia il Servo di Dio non fu considerato come un esule, ma come un prezioso ausiliare del vescovo diocesano Francesco Patrizio Cruice, a cui si sostituiva amabilmente a mano a mano che le forze del Presule venivano meno. Nella città francese mons. Petagna trovò due compagni di esilio: Mons. Apuzzo, arcivescovo di Sorrento e Mons. Ricciardi arcivescovo di Reggio Calabria. Il nostro Vescovo si immerse nel lavoro apostolico, però con delicatezza e prudenza. Dalla rivista cattolica marsigliese La semaine liturgique appare evidente che il suo zelo avanza come la luce, dall’aurora al meriggio. Il Pastore in esilio comunicò col suo clero mediante una ininterrotta corrispondenza. Da quelle lettere si sprigionano fiamme di zelo, emergono gemiti di dolore e si elevano espressioni d’amore. Come saggio ne riportiamo qualche periodo.

Il 4 febbraio 1861 il Pastore scrive: Ringrazio tutti e di cuore dé teneri sentimenti che nutriscono verso di me, e dé quali non ho mai dubitato nella mia residenza e neppure nella mia assenza… Benché occupato ogni giorno nelle opere del ministero sacerdotale, non posso a meno d’avermi il cuore lacerato all’idea del gregge separato dal primo Pastore. Il Vescovo esiliato era in continua relazione con la diocesi dalla quale gli giunge questa triste notizia. Il 5 ottobre 1861 il segretario generale del ministero di grazia e giustizia recriminava perché, secondo lui, il Vescovo “aveva oberato sciaguratamente di debiti ed obbligazioni la mensa vescovile”. Era questo un motivo più che sufficiente per eliminare le Cappelle serotine a cui la mensa vescovile, non più del Vescovo, avrebbe dovuto dare qualche briciola. Ci sarebbe da ridere. La mensa usurpata era stata privata di qualche bene donato all’apostolato, dunque era reato non averla consegnata integra agli usurpatori. In una lettera, datata 27 dicembre 1861, il nostro Vescovo raccomanda accuratamente ai sacerdoti ed ai religiosi la fedeltà alla propria vocazione e si lamenta per scandali, causati dall’ingerenza di alcuni sacerdoti in campo politico. Erano in realtà “pochissimi, ma bastevoli a molta ruina di anime”. Nel mese di maggio del 1862 il Vescovo esule andò a Roma per assistere alla Canonizzazione dei 23 martiri giapponesi dell’Ordine dei Minori osservanti e del Beato Michele de Santis. Il pellegrinaggio fu un tuffo nella spiritualità di Pio IX.

Il plebiscito
Il Sindaco Raffaele Vollono, decise irrevocabilmente che le votazioni per il plebiscito si dovessero tenere il 21 ottobre 1860 in Cattedrale. L’adesione al nuovo potere doveva assumere la dignità di un evento sacro. E la cattedrale Stabiese nel giorno indicato fu libera all’uso. Documenti coevi informano che la suddetta votazione non ebbe un pacifico svolgimento; vi fu un ammutinamento di popolo e il diniego di Sacerdoti stabiesi a dare il voto per il plebiscito. Purtroppo il clero si divise. I più credettero bene aderire al nuovo corso politico e scrissero al nuovo Re di “voler rispettare ed eseguire fedelmente gli ordini, che al certo saranno sempre cattolici, perché dati da un Re, la cui famiglia ha dato tanti Santi alla Chiesa”. Vi furono anche sacerdoti irriducibili. Tra questi si distinse l’arcidiacono del capitolo don Catello Raffaele Longobardi, che si tenne fedelissimo al Pastore in esilio. Per questo reato, fu oggetto di villanie da parte della plebe prezzolata. Altri sacerdoti fedeli al loro Pastore furono deportati a Napoli per misura di polizia e furono anch’essi maltrattati. L’esito del plebiscito fu davvero imprevedibile. Come deputato del Collegio di Castellammare al I° Parlamento Nazionale fu eletto Don Mariano Ruggiero di Meta di Sorrento. Incredibile, ma vero: al generale Giuseppe Garibaldi fu attribuito un solo voto. E i voti dei fanatici ammiratori del generale dove andarono a finire? Si tenga presente che allora soltanto i possidenti avevano diritto al voto e le donne non potevano votare, perciò non si pensi che i 522 voti su 763 votanti fossero del popolino ignorante. Certo, se non l’unica causa, entrò come concausa l’anticlericalismo viscerale del generale. La mentalità del Dittatore era fatta ben conoscere dai suoi aderenti. Il generale dei Mille avrà ripetuto mille volte questi giudizi riferiti al clero: Via scorie d’inferno, l’umanità è stanca e inorridita di voi. E ancora Dite ai preti borbonici e murattiani, e simile canaglia, che la giustizia di Dio è vicina. Bisogna combattere i preti avvoltoi, corvi assetati a pascersi di cadaveri, che disseminano le tenebre sulla terra. Quando l’8 dicembre 1861 il terremoto colpì la città di Torre del Greco, da Caprera Garibaldi scrisse: La lava e i terremoti non possono ammansire la razza umana, quanto preti e tiranni. L’allievo del Generale, Nino Bixio, creò uno slogan fortunato che trasmetteva a meraviglia l’odio garibaldino: Se vedi un uomo vestito di nero, sparagli addosso; può darsi che sia un prete. Garibaldi ha amato l’Italia e si è sacrificato per la sua unità con un ardore superiore ad ogni elogio, godeva di un ascendente sui suoi soldati come pochi condottieri nella storia, ma soffriva di un anticlericalismo viscerale e plateale ben alimentato e sfruttato dalla massoneria imperante.

A Marsiglia splende il sole

Il 23 marzo 1862 la Semaine liturgique parla per la prima volta del nostro Vescovo e ne ammira la fede del confessore che si sprigiona con forza dall’eccezionale oratore. Nello stesso anno il celebre gesuita, padre Carlo Passaglia inoltrò una petizione al Beato Pio IX, scongiurandolo di cedere Roma come capitale d’Italia. Il documento era corredato dalla firma di ben novemila sacerdoti. Avevano firmato anche alcuni sacerdoti della diocesi di Castellammare. In realtà, i firmatari nel novembre dello stesso anno organizzarono una dimostrazione contro il potere temporale. Quell’azione fu uno scandalo per i più conservatori e inflisse una ferita al cuore del Vescovo esule. La quasi totalità del clero era obbediente, anzi devota, al vescovo in esilio. Lo dimostra all’evidenza questa lettera che il Vescovo Petagna spediva al Capitolo Cattedrale in data 2 gennaio 1863. Non può non tornarmi gradita la vostra testimonianza di quell’affetto che sempre avete nutrito per me indegnissimo. Si rileva così anche più la speranza, sapendomi allora di essere quasi a conversare in mezzo a voi e comunicarci a vicenda i reali sentimenti dell’animo. Mai ho compreso tanto l’affetto che può produrre su un cuore affranto dalla desolazione il vivifico raggio della speranza: quello senza il sostegno di questa cadrebbe in un mortale abbandono. È vero che anche qui mi consacro, quanto posso, a formare Gesù Cristo nelle anime, alle quali Egli stesso mi diresse da Roma… ma non sono quelle del gregge affidatomi, non quelle fornitemi dalla mia sposa di Castellammare… Sallo Iddio se mi ha destinato raggiungerlo senza abbracciarvi altra volta in questo deserto d’affanni. Come è evidente, traboccano affetto ed umiltà. La straordinaria paternità del Vescovo non riuscì a bloccare il castigo e i preti liberali furono sospesi a divinis. Dopo l’avvento di Papa Giovanni e del Concilio, ai moderni il castigo sembra eccessivo, soprattutto perché oggi ci appare come una autentica grazia la soppressione del potere temporale. Il Papa non è più il Re, ma è più Papa; si è liberata di più la sua libertà. Riportiamo la lettera con cui il Vescovo comminò la sospensione al sacerdote Antonio Vanacore. È un documento caldo per la paternità e, sgombro da qualsiasi ombra di risentimento.
Al Rev. Sacerdote D. Antonio Vanacore
Figliuolo diletto
Se i Ministri di Gesù Cristo debbono essere luce di verità, e sale di sapienza in ogni epoca e mostrarsi modello di virtù e di santità in ogni tempo, tanto più lo debbono in tempo del trionfo dell’empietà e della corruzione. E se essi si son mostrati un po’ degeneri dell’altezza di loro dignità Sacerdotale, è necessario che subito ritornino in loro stessi, e facciano senno in favore a tutti per riparare lo scandalo. Perciò abbiti sospeso a Divinis e, facendo gli esercizi spirituali per alquanti giorni, purificherai la tua coscienza in qualche casa religiosa. E quivi, consultando qualche buono direttore spirituale sulle espressioni da usare, mi farai una lettera dove ritratteresti il detto e il fatto contro la Chiesa di Gesù Cristo, e il suo Capo Visibile il Papa, ed io penserei renderla di pubblica ragione. Il tuo animo sempre ben disposto verso di me, l’affetto mostratomi pel passato e la sommissione a miei voleri altre volte mi fanno ritenere che questa volta sarai docilissimo. Io altronde non manco implorarti ogni giorno da Dio nell’Incruento Sacrificio coraggio e fermezza di animo in faccia ad ogni rispetto umano, e solenne generosità di cuore a procurare grande gloria a Dio e molto bene alle anime nell’ubbidirmi, aspettandomi qualche consolante riscontro, ti benedico di cuore, e teneramente abbracciandoti mi dico.
Marsiglia il 3 Gennaio 1863

Aff.mo Pastore
Francesco Saverio
Vescovo di Castellammare

Il Vanacore, più liberale che sacerdote, intentò causa al Vescovo, presentando la lettera ai giudici. Dobbiamo dire con gioia che in tanta tempesta politica la magistratura, anche se covava nel suo seno non pochi massoni, non si era lasciata politicizzare. I magistrati lessero con serenità la lettera episcopale e dichiararono che il fatto non costituiva reato. Il nostro Servo di Dio subì per gli stessi motivi un secondo processo in cui fu completamente assolto. Il 6 agosto 1862 le autorità regie requisirono l’episcopio e lo diedero in uso al colonnello Negri ed al suo seguito. A Castellammare difettavano alberghi? Era evidente l’intenzione di umiliare il Pastore esule. Le ottime condizioni del palazzo smentiscono la leggenda, secondo la quale nel settembre 1860 la plebe prezzolata, nell’affannosa ricerca per catturare il Vescovo, avrebbe devastato l’Episcopio. Quella plebe, che si sarebbe voluta anticlericale, ammirò invece nel Vescovo Petagna il degnissimo successore del suo S. Catello. All’apice dei pensieri il Pastore in esilio ebbe sempre la formazione spirituale e la promozione agli ordini sacri dei suoi Chierici, che continuava ad amare, e con tenerezza maggiore, quali pupille degli occhi suoi. Dell’apostolato ardente, esplicato dal nostro Pastore a Marsiglia, si diedero molti giudizi come questo: I fedeli furono edificati dalla presenza di questo confessore della fede, il cui esilio fu una benedizione per la città di Marsiglia. Le suore di vita contemplativa scrissero del nostro Pastore: La sola vista di questo generoso confessore della fede fece un bene alle nostre anime. Le suore clarisse di Marsiglia il 12 agosto 1865 scrissero nella loro cronaca: Il Vescovo di Castellammare entrò nel monastero e ci inondò col profumo della sua pietà e della sua eroica rassegnazione alle disposizioni della Provvidenza. Tanta stima non riusciva ad attutire la nostalgia. Egli scriveva: Tutto quello che fo per le anime qui, l’offro a Dio pel bene della mia diocesi. Questa miserabile natura schiamazza sempre e grida forte ad ogni semplice stretta del torchio della croce. Il popolo amava il suo Pastore non meno dei sacerdoti. Il Vescovo partì dalla diocesi “per essere più libero nel suo ministero pastorale”. Non affatto odiato dal popolo, dal quale anzi fu molto amato.

Groviglio di vipere
Il sindaco di Castellammare pensò bene di chiedere al Vescovo esule a Marsiglia il favore che qualche sacerdote potesse celebrare i divini Uffizi nel giorno della festa dello statuto. Apriti cielo! Si mosse la burocrazia statale come se stesse per scoppiare una guerra. La Prefettura di Napoli il 23 maggio 1863 propose subito la destituzione del sindaco per aver umiliato l’autorità nel chiedere un favore addirittura ad un vescovo da evitare. Nella nuova religione, destinata a sostituire quella cattolica, già erano sorti gli “scomunicati vitandi”: da evitare. Il 4 giugno successivo ci fu addirittura l’intervento del ministro Silvio Spaventa che, spaventato, impartì al Prefetto di Napoli quest’ordine draconiano: Se il Sindaco permetteva intervento clero Festa Nazionale, lo sospenda suo ufficio. Per la verità il Vescovo aveva risposto al Sindaco in forma dura e tagliente: Rispondo con dispiacere che nella Chiesa perseguitata i sacerdoti non possono celebrare i trionfi dei loro persecutori; non permettendo ciò la coscienza dei propri diocesani. La lettera per prudenza il sindaco non l’aveva divulgata. La stessa prudenza consigliò al Sindaco de Rosa di dare le dimissioni. Al terzo anno d’esilio, nel cuore del nostro esule vampeggiò la speranza di riabbracciare la sua sposa, la diocesi, anche perché da Marsiglia erano ritornati a Roma i suoi compagni d’esilio Mons. Francesco Saverio Apuzzo, arcivescovo di Sorrento, e Mons. Mariano Ricciardi arcivescovo di Reggio Calabria. Per avere un’idea del profondo disprezzo, anzi dell’odio che le nuove autorità nutrivano per i Borboni, si legga questo brano dello scritto stilato dal Delegato di Pubblica Sicurezza, Francesco Saverio de Rosa, ed inviato al Comune di Castellammare per proporre il mutamento della toponomastica. Dei popolani prezzolati erano andati alla caccia degli Stemmi borbonici per distruggerli come serpenti. Questi civilizzatori vogliono togliere anche i nomi alle strade perché “borbonici”. Nel tempo del diroccato ed esacrato governo, i malvagi volendo onorare il nome e la nascita del tiranno, i suoi devotissimi ladri e carnefici dell’umanità estorcevano denaro dai timidi del tempo, per far splendida e magnifica illuminazione, e di fuochi fatui, di concerti musicali, come pure dispensava panni e pane ai poveri, per così esaltare la tirannia al grado di massima virtù dell’abominata e schifosa prosapia dei Borboni. Per effetto alone questo giudizio si estendeva a tutti i simpatizzanti dei Borboni e a quelli creduti tali. Tra questi, secondo lo scrivente, primeggiava il nostro Vescovo il quale invece da giovane sacerdote aveva invocato e poi celebrata la costituzione data da Ferdinando II; perciò amava anche la libertà politica, certo non meno dei suoi denigratori. Tra questi si distingueva il Sotto-Prefetto Achille Serpieri. Virgilio aveva realmente ragione di affermare che i nomi spesso rispondono alle cose. Ed ecco un groviglio di vipere del Serpieri. È una relazione scritta per il Prefetto di Napoli e datata il 20 giugno 1865. Essendomi giunta notizia che in questa Città stiasi firmando una petizione per interessare il Consiglio Comunale ad opporsi al ritorno in questa Diocesi del Vescovo Monsignor Petagna, e ciò per quanto sulle generali si vocifera in proposito del ritorno del Vescovo, adempio al dovere di rendere informata la S.V. In pari tempo non debbo tacere alla S.V. che giustamente la popolazione ha avversione al predetto Vescovo tanto per la sua origine che per la condotta da esso tenuta nell’amministrare questa Diocesi. Egli era nel 1848 Rettore costì della Parrocchia di S. Ferdinando e nella reazione che seguì per opera di un Re spergiuro tenne caldamente la parte reazionaria, fino a tradire molti rifugiatosi col suo consenso nella sua chiesa parrocchiale consegnandoli alle truppe inferocite contro una Città inerme, e procurando in tal modo la ruina di tutti quegl’infelici, e mi si dice, anche la morte di alcuni27. Un tale barbaro atto gli valse al premio la Diocesi di Castellammare nella quale dimostrò sempre il suo spirito reazionario, abusando della sua autorità spirituale sino all’interno delle famiglie, e si narrano sevizie usate per di lui ordine degne di far parte della Storia dell’Inquisizione di Spagna. Al sopraggiungere della rivoluzione nel 1860 fu sollecito licenziare gli alunni del Seminario per fare del locale un Ospedale per i feriti Borbonici che venivano dalla Sicilia, ed, assicurato il trionfo della Nazione, abbandonò la Diocesi e si rifugiò in Marsiglia di dove non ha mai cessato di mantenere intrighi reazionarii, e di obbligare questo Clero a tenersi in ostilità al Governo. Il suo ritorno è ritenuto pernicioso per ogni rapporto anche dai Cittadini i più pacifici, poiché si vedrebbe maggiormente ancora abusare dell’influenza spirituale per fini di partito, il che mentre genera disturbo nella popolazione, diminuisce anche la santità della Religione. Il sacerdote Francesco Saverio Petagna divenne rettore di S. Ferdinando il 1849. I fatti a cui si riferisce il documento avvennero nel 1848, ossia l’anno precedente.

Come si nota, il documento per provare tante calunnie, è uno solo: “mi si dice”. Però! Doveva avere una statura ultraciclopica il nostro Vescovo, se da Marsiglia faceva ombra ai massoni della Campania. Il 25 marzo 1864, giorno di Venerdì Santo, il Pastore dall’esilio inviò ai suoi diocesani una lettera pastorale che intitolò “Istruzione pastorale del Vescovo di Castellammare ai suoi diocesani”. Dalla lettera sgronda dolore ed amore. Il 16 aprile 1864, il Servo di Dio scrive: Mi si permette il ritorno però sotto sorveglianza della polizia; il che significa la facilità di cacciarmi in prigione ad ogni lieve calunnia e rendermi inutile per i miei. Il Papa gli consiglia di rimanere a Marsiglia. Il 29 maggio 1864 il Capitolo della Cattedrale invitò la giunta municipale a partecipare alla processione del Corpus Domini. Il Sindaco rispose: La Giunta Comunale è impedita. Con intelletto d’amore il nostro Vescovo meditò l’enciclica di Pio IX “Quanta Cura”, che fu emanata il giorno 8 dicembre 1864, e il 2 aprile del 1865 inviò ai suoi diocesani una nuova pastorale che voleva essere un commento all’enciclica papale e difatti la intitolò, “Istruzione pastorale sull’enciclica e sul Giubileo del 1865”. Assaggiamone qualche periodo.

“E voi, sacerdoti tutti, in special modo del cuore mio; che formate in questi tempi il decoro e la gloria della Chiesa di Stabia; che non lasciate presa nell’animo vostro allo spirito della menzogna dei falsi profeti e siete disposti ad essere cacciati in prigione ed alimentati con pane di tribolazione e con acque d’angosce; abbiate grande la confidenza in Dio, rianimate il vostro coraggio, gittate le vostre reti, a far frutto, sempre in alto mare: ducite in altum, e sia il Cuore di Gesù Cristo, cor altum, e quello di Maria Immacolata, mare magnum, secondo la frase dei Padri”.

Questa pastorale costituì la trama dell’intervento che il nostro Vescovo avrebbe fatto al Concilio Vaticano I. La pastorale piacque molto a Pio IX che in data 5 luglio 1865 gli spedì una lettera traboccante di congratulazioni e di affettuosi ringraziamenti. Nel 3 giugno 1865 il Pastore scrive una lettera in cui vigoreggia la speranza, anche se essa è espressa in forma faceta. “Desidero tanto abbracciarvi. Poveri voi, specialmente pingue come son divenuto nel confessionale e senza moto, quando avrò a saltarvi al collo la prima volta, per abbracciarvi”.

Il 1865 moltiplicò il lavoro del nostro Servo di Dio a causa della malattia del Vescovo di Marsiglia, mons. Cruice. Nel mese di agosto Castellammare fu invasa dal terrore del colera. Il nostro Pastore chiese di tornare in diocesi per prodigarsi nel servizio degli ammalati e rinnovare così l’eroismo che aveva esercitato durante l’epidemia del 1854. Gli fu negato. Ma la carità urgeva dentro ed egli raggiunse Napoli, dove aveva dato appuntamento ai suoi chierici ordinandi. Giunse a Napoli lo stesso giorno in cui faceva ingresso nella metropoli il Re Vittorio Emanuele II. Sembrò una sfida. Per rimanere nella sua città addusse motivi di salute. Il referto medico non fu riconosciuto, anzi il Prefetto di Napoli riceveva dal Ministero dell’Interno il permesso-ordine di allontanare il Vescovo dalla città. La nuova residenza – esilio del Servo di Dio fu Roma. Qui dimorò nella casa detta di S. Girolamo della carità. Siccome in quel edificio v’erano stati parecchi santi, egli vi visse con la devozione con cui si abita in un santuario.