A Napoli, alle ore 11 del giorno 13 Dicembre del 1812 apriva gli occhi alla luce il quintogenito dell’orafo napoletano Don Domenico Petagna e di donna Angelica Cataldo; il neonato nel medesimo giorno, al fonte battesimale, ebbe i nomi di: Francesco Saverio Maria Tommaso Vincenzo. Il padre era di origine sorrentina e trasmise al figlio la serenità di quel cielo. Il Signore donò all’orafo un gioiello, cesellato dallo Spirito Santo, un gioiello tra i più belli che risplenderanno eternamente in Cielo. Donna Angelica respirava nell’atmosfera mariana, che aveva creato a Napoli Don Placido Baccher, rettore del Gesù Vecchio. Questo Servo di Dio bruciava per l’Immacolata come un roveto ardente. La santa madre, che aveva attinto il fuoco a quel roveto, lo appiccò gioiosamente al figliolo Francesco.
Lo studio e lo spirito di pietà andavano a gonfie vele ed in perfetta armonia; ma l’impegno era così intenso, che il fisico non resse e il ragazzo dovette arrendersi. Il giovinetto allora ripiegò sul lavoro manuale e sulla musica nella quale fu versatissimo. Con la salute ritornò affamata la passione per lo studio. La Madonna, come suol fare con i giovanetti a lei più cari, ottenne per lui la vocazione ecclesiastica nell’età di quattordici anni. Mediante l’ammirazione della madre brillò davanti alla fantasia ardente del seminarista come fulgido ideale l’apostolato di Don Placido Baccher.
Il nostro seminarista a soli 17 anni fu dato come insegnante di lettere ai chierici. Nell’almo liceo arcivescovile occupò l’onorevole posto di principe del Circolo. Da Napoli passò a Roma per completare la formazione nelle prestigiose università. Da Roma ritornò a Napoli con le lauree in teologia e in diritto canonico e con una vera devozione per il Papa. Il seminarista scelse come padre spirituale il celebre moralista, il canonico Porpora, il quale impose al suo figliolo spirituale l’obbligo di leggere ogni giorno un capitolo della Bibbia, commentata dal Martini e di ritornare all’inizio ogni volta che fosse arrivato alla fine del testo sacro. E così per tutta la vita! Questo impegno ininterrotto spiega quella padronanza eccezionale che il Petagna ha della Sacra Scrittura. I suoi scritti non sono soltanto conditi, ma sono addirittura intessuti col frasario della Sacra Scrittura. Frasario il suo che egli sa a memoria e che zampilla dal suo cuore come acqua da fonte. Il nostro aspirante al sacerdozio desiderava ardentemente studiare la Parola di Dio sui testi originali e perciò divenne un autentico esperto delle lingue ebraica e greca. Voleva poi avere una visione globale del pianeta e perciò si impadronì mirabilmente delle lingue moderne. Parlava il francese, l’inglese, il tedesco e perfino il polacco. Possedeva il francese come la lingua materna. Egli era dotato di un udito da grande musicista. Questa armonia radiosa di dottrina e di pietà gli ottenne il favore, rarissimo a Napoli, di essere ordinato sacerdote a soli 23 anni. L’eletto si sentì profondamente alter Christus ed il fuoco dello Spirito Santo divampò.
Egli fu zelantissimo missionario nelle Sacre Congregazioni dei Sacerdoti Napoletani e ne compì gli uffizi con sommo zelo, specialmente nelle cappelle serotine, nell’Ospedale degli Incurabili e nel Carcere di Castel Capuano, detto la Vicaria. Il giovane sacerdote irradiava anche un’aristocrazia che potremmo definire eucaristica. La sua era l’aristocrazia del Sangue di Gesù la quale gli conferiva quella autorevolezza che lo faceva stimare ed amare dai nobili. Anche per lui si poteva ripetere l’espressione che S. Luca adopera per Gesù: tamquam auctoritam habens: parlava come uno che ha autorità. Nell’opuscolo biografico, che il Vescovo Sarnelli scrisse per il suo predecessore, più volte ricorre l’elogio del nobile e cortese stile del giovane apostolo. Ammirando quella nobiltà spirituale i superiori lo elessero Rettore della Nobilissima Arciconfraternita di S. Ferdinando. Nell’autentico gioiello biografico, con la conoscenza personale e con l’autorità di pastore intemerato, il Sarnelli registra questo giudizio.
Potette portare a Dio, quei nobili, non solo come rettore della Chiesa, ma come vero Padre spirituale e direttore di coscienze. E questo successo d’apostolato lo riscosse non ancora trentenne. Già padre spirituale a 25 anni! Nel 1841 a soli 29 anni il nostro apostolo fu uno dei confondatori della rivista La scienza e la fede, che ebbe grande successo. Era un comunicatore eccezionale: quando predicava coinvolgeva le folle nel suo entusiasmo mistico.
Questo sacerdote all’altare appariva alter Christus, sul pulpito uno scrigno vivente della Sacra Scrittura e nel confessionale l’uomo dello Spirito Santo. Nelle funzioni solenni egli con l’organo accompagnava meravigliosamente i canti liturgici. Il giovanissimo sacerdote, nato a Napoli durante la bufera che sconvolse l’Europa ed ora operante in un periodo tempestoso, ai suoi concittadini appare come un’aurora. Il Cardinale di Napoli, Sisto Riario Sforza, al Nunzio Apostolico, che gli chiedeva il suo parere sul candidato all’episcopato, sacerdote Francesco Saverio Petagna, diede questo giudizio: Sacerdote istruito, di ottimi costumi, e che darebbe somma fiducia di poter ben guidare una diocesi in questi tempi. Niente di esagerato!
Sulla cattedra di s. Catello rifulge Pio IX il 12 aprile 1850 rientrò in Roma, da dove si era allontanato per i moti del 1848, e il 20 maggio successivo, nel primo Concistoro, proclamò don Francesco Petagna Vescovo di Castellammare di Stabia. Nella bolla di nomina, si evidenzia lo zelo che l’eletto ha esercitato per i ragazzi di strada e la carità per i poveri e i ricoverati nei nosocomi. Il 16 giugno 1850 il nostro Pastore fu consacrato Vescovo nella Cattedrale di Napoli dal Cardinale Sisto Riario Sforza. I Vescovi consacranti furono Raffaele Serena e Ignazio De Bisogno. A soli 38 anni di età il Vescovo Petagna sedette sulla cattedra di S. Catello, infatti fece ingresso a Castellammare il 24 giugno 1850. La diocesi lo accolse con giubilo immenso per la bella fama che lo aveva preceduto, e per le soavi maniere con le quali si diportava con tutti.
Il 29 giugno 1850 il nuovo Pastore celebrò il suo primo pontificale solenne nella Cattedrale ed elettrizzò la folla con la sua omelia ardente e commovente. In quel giovane, che bruciava col fuoco dello Spirito Santo, batteva un cuore di padre amabile e amante. L’apostolato del giovane vescovo si incentrò tutto sull’evangelizzazione, senza però trascurare la promozione umana. Il Vescovo Petagna non si irrigidisce su impostazioni giuridiche, è sensibile ai carismi, di cui lo Spirito Santo arricchisce la sua diocesi, che egli ama davvero come sua sposa. Promuove i carismi e li fonde in un’orchestra di cui si sente il direttore nato. Egli non sospetta neppure lontanamente che ci possa essere rivalità tra la Chiesa carismatica e la Chiesa gerarchica. Nella sua diocesi si verifica ciò che più tardi con Papa Giovanni si realizzerà e si ammirerà nella Chiesa universale: il vertice della Chiesa gerarchica si identificava col vertice della Chiesa carismatica; il vescovo era il più radioso carismatico di tutti i suoi fedeli. Il nostro carismatico aveva assimilato mirabilmente la teologia di S. Paolo circa il Corpo Mistico e, almeno implicitamente, considerava la santità come perfetta salute del Corpo Mistico.
Ma il Corpo Mistico ha una pluralità di membra deputate alla ricchezza immensa delle varie funzioni. È ovvio che la salute è dovuta al perfetto funzionamento delle membra, ed è perciò altrettanto evidente che la santità è dovuta al perfetto funzionamento delle membra mistiche della Chiesa. La santità è l’assoluta volontà di Dio ed anche la grande passione del nostro Vescovo. Egli è più che convinto di questa verità: chi si eleva, solleva. Dunque, per sollevare la Diocesi nel cielo della grazia e della civiltà autentica, bisogna elevarsi nella santità. E la santità fu la meta che orientò e consacrò tutte le sue energie. Tutti i carismi dei sacerdoti, dei religiosi, dei laici impegnati, delle madri di famiglia, degli intellettuali, degli operai, furono valorizzati ed armonizzati in un’unica orchestra dal nostro vescovo-carismatico, che si sentiva, e fu realmente, direttore d’orchestra. Il direttore d’orchestra non sostituisce nessuno dei suoi musicisti e a nessuno si sente superiore, ma armonicamente e gioiosamente li dirige tutti.
I liberali-massoni lavoravano per la libertà politica, mons. Petagna lavorava per la libertà dei carismi e quindi per la libertà dello Spirito Santo. Così si spiega quella sua autorità oculata e calda di vero padre, lontana anni luce dall’autoritarismo, che spadroneggiava ai suoi tempi. L’autorità per lui si lasciava dissolvere e risolvere tutta in carità. Ai suoi figli andava dicendo: Camminiamo d’accordo. Fate onore al vostro padre che vi custodisce qual pupilla dell’occhio. Ammoniamo ciascuno di voi di servire il Signore nella verità e di cercare in tutto il suo piacere. Nell’ottobre del 1850 indisse ed organizzò gli esercizi per i sacerdoti da tenersi nel Seminario stabiese, e il 13 dicembre emanò delle norme per ripristinare la disciplina. Per lui la pietà era l’anima e la disciplina costituiva il corpo del presbiterio. Tra il Capitolo della Cattedrale stabiese e quello Collegiale di Lettere non correva buon sangue. Tra i capitolari stabiesi e il vicario generale Raffone ferveva la lotta. Il buon vescovo, per ottenere la tranquillità, destituì il Raffone da vicario generale. L’intervento piacque ai canonici, ma irritò terribilmente il Raffone, che per tutto il resto della vita portò l’umiliazione proprio come un proiettile nella schiena. Per reagire cominciò subito con le insubordinazioni; strano a dirsi, si alleò con una vecchia suora che spadroneggiava nel monastero della Pace. Il vescovo aveva un’ammirazione straordinaria per le claustrali e sperava molto dalla loro vita contemplativa. Purtroppo nei cinque monasteri il fuoco mistico si era quasi spento e la disciplina rilassata del tutto. Il vescovo fervoroso volle ripristinare in quei centri di spiritualità la comunità perfetta ed in quattro di ssi ci riuscì abbastanza bene, ma nel quinto, quello della Pace appunto, trovò difficoltà insormontabili. La superiora si chiamava Rota e le riusciva facile fare la ruota del pavone. Con le sue arti subdole plagiava le povere suore e si faceva credere perseguitata dal vescovo, poi, con l’aiuto del Raffone, arraffava tutte le occasioni per compilare lettere di accusa contro il Pastore. Le lettere frequenti scritte alle Congregazioni romane erano un misto di miele e di veleno, ben dosati. Al Raffone non mancava l’intelligenza ed alla suora non faceva difetto il pettegolezzo. I massoni intrecciarono una grossa corona di spine e la calcarono senza pietà sul capo del vescovo a furia di bastonate. Per la verità, le spine politiche erano più vistose, ma quelle religiose pungevano di più! Le lotte e le accuse non riuscivano ad indebolire la carità del Pastore; mettevano legna al fuoco. In un mondo, che prediligeva la secolarizzazione, il nostro apostolo scelse la via di S. Alfonso: predicò la fede e praticò la carità.
Lo storico Giovanni Celoro Parascandolo è stato felice quando al suo primo volume ha dato questo titolo Il Vescovo della carità, il difensore della fede. Che la scelta apostolica doveva essere preminentemente religiosa appare con estrema evidenza nella prima lettera pastorale del nostro Apostolo. Si rivolge ai canonici, ritenuti la parte più qualificata del clero, e chiede loro la mano e la bocca con sapienza per costruire il regno di Dio. Supplica accoratamente i missionari ed i sacerdoti affinché risplendano sul candelabro per richiamare i traviati, infervorare i pusillanimi, accogliere gli infermi, confermare i fratelli con mansuetudine. Manifesta col programma anche la sua passione che consiste nel servire il Signore nella verità e cercare il suo piacere. Non potevano sfuggire ai fedeli queste parole: Sono il minimo dei vescovi, anzi non sono degno d’essere chiamato vescovo. Per mettere un argine al torrente della corruzione il 29 novembre del 1851 il Vescovo aprì a Scanzano un Ritiro per le povere donne pentite. L’opera fidava sulle scarsissime risorse del Vescovo e sulla grande fiducia nella Divina Provvidenza. Nel giugno 1852 diede vita ad un Asilo di mendicità, dove accogliere i veri poveri del Comune durante l’inverno ed impedire così che gli accattoni occupassero nell’ospedale civile posti destinati agli ammalati. Nel 1853 lo zelante pastore creò un altro Ritiro destinato ad accogliere le orfanelle in un clima di famiglia. L’anno successivo l’epidemia colerica aumentò il numero delle orfanelle derelitte. Il paterno pastore, che aveva tanto a cuore la santità dei costumi di quelle vergini, le affidò alle cure materne delle suore Figlie della Carità. Per promuovere la fede e la pietà mons. Petagna istituì la Congregazione delle Missioni, intitolata a Maria Immacolata. Questa istituzione aveva lo scopo di formare missionari dotti e zelanti per l’evangelizzazione del popolo, al quale dovevano dettare fervorose missioni. Nel 1856 l’instancabile fondatore diede vita ad una associazione di sacerdoti secolari detta dell’Immacolata Concezione. Essa aveva lo scopo di istruire i fanciulli, di ricoverare ed assistere gli accattoni. I membri emettevano i tre voti religiosi di ubbidienza, di povertà e di castità. L’istituzione piacque molto al re Ferdinando II il quale l’approvò e diede loro l’antica casa dei Gesuiti con la chiesa annessa. Il monarca fece sgombrare l’edificio dalla Real Marina, che l’occupava, e volle fare anche un dono ai membri della eroica Congregazione: fece scolpire per loro una bella statua della Madonna, che ora si venera nella Chiesa di S. Gioacchino. Nel 1860 la Compagnia zelante e virtuosa fu soppressa. Don Gaetano Sanges, che era un componente della Compagnia, lasciò scritto: Questa Congregazione, fondata dalla sacra memoria di mons. Petagna, fu soppressa nell’anno 1860 e i membri furono violentemente cacciati dai rivoltosi garibaldini e per vendette private. Dovette essere straordinario l’ascendente che il giovane vescovo esercitava sui suoi sacerdoti, se parecchi di questi si assoggettarono alla vita comune ed alla pratica dei consigli evangelici, perché affascinati da lui.
A Napoli il nostro Vescovo aveva fatto scintille nelle Cappelle serotine e portava nel sangue la passione per esse. Il suo successore e devoto, mons. Sarnelli, scrive che mons. Petagna, guadagnato il cuore del Clero, poté disporre per le imprese apostoliche più difficili, così gli riuscì di stabilire le Cappelle serotine, secondo la forma ideata da S. Alfonso e dal venerabile don Gennaro Sarnelli9. Un bene immenso ne venne al popolo. Il vescovo mise le Cappelle serotine sotto la direzione dei sacerdoti missionari di Maria Immacolata. In breve tempo l’intera cittadina fu tutta ingemmata di Cappelle serotine, ove il catechismo era annunciato con entusiasmo e la pietà cantava con gioia. Lì le varie categorie di persone si comprendevano e si affratellavano. Il successore di mons. Petagna mons. Sarnelli, entusiasta anch’egli delle Cappelle serotine, scrisse: A chiunque consacra tutta la vita nell’opera delle Cappelle serotine, vorrei scrivere sulla fronte a lettere incancellabili: Benemeriti fra i primi della società e della Chiesa. Tra i primi benemeriti senza dubbio si iscrive il nostro Vescovo Petagna, instancabile propagatore delle Cappelle serotine nella sua diocesi. Per il nostro vescovo intellettuali e popolani, nobili ed operai erano tutti figli suoi, senza distinzione: egli amava il popolo senza essere populista e sapeva molto bene che nella gioia e nel dolore siamo tutti uguali, perciò curò le Congreghe esistenti e fece risorgere anche l’Arciconfraternita dei nobili, denominata Arciconfraternita del Corpo di Cristo. Per sede a questa Congregazione diede l’Episcopio. Il nostro mistico curò il seminario come il vivaio di Dio. Egli nella sua diocesi, con gli occhi della fede, scorgeva due cuori: il divino e l’umano, l’Eucaristia ed il Seminario e vedeva crescere la salute della diocesi a misura che i due cuori erano in sintonia. Riferendosi ai seminaristi il vescovo poteva esclamare con S. Paolo: Io vi ho generato in Cristo Gesù10. Io vi ho partorito di bel nuovo. Amava i seminaristi come la pupilla degli occhi suoi. Volle una formazione integrale. I seminaristi dovevano crescere a tutti i livelli: sani, dotti e santi. Pose ogni cura affinché fiorissero gli studi delle lettere e delle scienze. Come padre spirituale chiamò da Napoli don Gennaro De Curtis, che si consacrò perdutamente all’educazione dei seminaristi. Tra i docenti troviamo anche uno straniero Mac Enerny che insegnò Sacra Scrittura e lingua ebraica. Il Vescovo rese accogliente e devota la cappella, quale centro della Comunità fraterna, e preparò a Lettere un bel locale dove i chierici passavano le vacanze in aria salubre ed in santa letizia. Il giovane vescovo asseriva con forza: Il Seminario dev’essere un’adunanza di angeli e un giardino di gigli per la santa purità. Disciplina sì, ma spirito di famiglia ancor di più. Il Vescovo dettò anche una regola saggia ed umana, che ordinava l’intera vita dei seminaristi, senza però opprimerla. Il buon Padre teneva presente l’insegnamento di Gesù: Il sabato è per l’uomo, e non già l’uomo per il sabato. Dunque la regola è per il seminarista e non il seminarista per la regola; questa dev’essere una via all’amore, all’amore di Gesù e all’amore dei compagni. L’opuscolo aggiornava le norme che S. Alfonso impartiva ai seminaristi suoi. Nel 1851 nel Seminario fondò una tipografia che chiamò appunto tipografia del Seminario. Lo stabilimento risultò così altamente utile alla città, che il Ministro dell’Interno conferì un premio al Vescovo.
La tipografia del Seminario nel 1852 pubblicò il Cathechismus ex decreto ss. Concilii ad Parocos Pii V Pont. Maximi jussu editus. Per volontà del Pastore una copia del volume doveva essere presente ed usata in ciascuna parrocchia così come la dispensa in ogni casa. Il catechismo getta le fondamenta della fede. Dalla Francia il Pastore fece venire le Figlie della Carità di S. Vincenzo de’ Paoli e le ricevette solennemente in Cattedrale. Le brave suore iniziarono subito il loro apostolato: due furono destinate all’insegnamento, le altre furono impegnate a soccorrere i poveri e gli ammalati nell’ospedale civile di San Leonardo in Castellammare.
L’8 dicembre del 1854 Pio IX, in forma quanto mai solenne, proclamò a Roma il dogma dell’Immacolata Concezione della Madonna. L’evento era tra i più solenni della storia della Chiesa ed il mondo cattolico vibrava d’entusiasmo. Il nostro Vescovo, tanto devoto della Madonna, poteva mancare? Volò a Roma e si inebriò di gioia mistica. Il 20 maggio successivo, in piccolo, si riprodusse nella diocesi del Vescovo Petagna il trionfo romano. Una processione ordinata e solenne portò tra le strade della città una statua della Vergine Immacolata su un artistico carro allegorico. Tutti i gruppi ecclesiali erano al completo e guidati dal Pastore procedevano festanti tra le variopinte insegne. Cantavano con entusiasmo e pregavano con lacrime di gioia. Più di tutti solenne e pio godeva il vescovo. Nel 1857 un terremoto sconvolse il Regno delle Due Sicilie. Il nostro Vescovo fu accanto ai sofferenti con premure paterne. Tutti ne furono ammirati ed edificati. Il 3 gennaio 1859 mons. Petagna inviò alla Sacra Congregazione del Concilio la prima relazione sullo stato della diocesi. Il Prefetto della Congregazione, che di relazioni del genere ne aveva esaminate a decine, rimase così stupefatto nel leggere quella del Vescovo Petagna, che per risposta stilò un vero panegirico; eccolo: Osservato attentamente con quanta sollecitudine tu ti sforzi di compiere il tuo dovere di Vescovo, con quanto zelo cerchi di ottenere ciò che serve alla Chiesa, al Clero ed ai fedeli, specialmente ai poveri, e con quanta vigilanza ti adoperi affinché gli ecclesiastici vivano una vita conforme alla loro vocazione, i religiosi e le religiose pratichino l’osservanza delle loro regole e il popolo sia dedito alla religione e ne osservi i precetti…, la Sacra Congregazione mi incarica di darti una lode degna della tua eccellenza. L’elogio del Vescovo indirettamente era anche un de profundis per l’azione denigratoria della vecchia suora Rota e del suo alleato arcidiacono Raffone. È proprio vero che il tempo è galantuomo, peccato che il tempo non arrivi in tempo, ma questa volta non si fece aspettare troppo.