Devo confessare che non sapevo molto del vescovo Petagna prima della lettura del volume che il dott. Celoro Parascandolo gli ha dedicato «con lungo studio e grande amore», dopo circa venti anni di ricerche Compiute in archivi italiani e stranieri. Il Petagna mi era noto come uno degli uomini di punta dell’episcopato meridionale dei primi decenni post-unitari; mi era noto come uno dei fedeli seguaci del card. Sisto Riario Sforza arcivescovo di Napoli del quale seguì gli orientamenti e le scelte in momenti difficilissimi, ricalcando, come lui, le vie dell’esilio e dell’intransigenza cattolica nei confronti dello Stato liberale sabaudo; mi era noto come uno dei vescovi meridionali che tra i primi aveva dato vita a congregazioni di diritto diocesano, anticipando una presenza religiosa nel campo sociale che si affermerà soltanto verso la fine del secolo con Bartolo Longo, con il Can. Annibale Maria di Francia, con Eustachio Montemurro. Sono grato, pertanto, al dott. Parascandolo di aver offerto non solo a me ma credo anche a molti altri studiosi una ricca messe di materiale documentario quanto mai utile ad una più approfondita conoscenza del vescovo Petagna e dei suoi tempi.
Il volume risulta strutturato in cinque capitoli, un’appendice, una bibliografia, un elenco di fonti storiche inedite: si va, cioè, dalla nascita del Petagna con particolare riguardo alla formazione sacerdotale fino al primo decennio di episcopato (1850-1860), dall’esilio a Marsiglia e a Roma (settembre 1860-clic. 1866) al ritorno in diocesi (1866-1878). L’ultimo capitolo è dedicato alle complicate vicende relative al trasferimento dei resti mortali del Petagna dal cimitero alla cattedrale stabiese, dal 1878 al 1907. La preziosa Appendice, poi, completa ed integra il lavoro con l’indicazione delle fonti bibliografiche ed archivistiche, annotate con scrupolosa cura, a dimostrazione anche della vasta ricognizione effettuata in tutte le direzioni in cui è stato possibile rinvenire documenti concernenti la biografia e l’attività religiosa svolta dal presule stabiese. Si è compiuto, insomma, da parte dell’A., un primo decisivo passo, un lavoro minuzioso e paziente di ricerca e di scavo archivistico, superando quelle difficoltà di cui sono ben consapevoli gli studiosi che spesso sono costretti a muoversi dietro una labile traccia o dietro ad ipotesi e indizi.
Ora, sulla scia del volume del dott. Parascandolo — tanto più apprezzabile perché scritto da un medico continuatore di una antica tradizione tipicamente meridionale di medici-umanisti — si pongono i problemi di interpretazione, di inquadramento, di analisi di una pastoralità e di una spiritualità che possano consentire di delineare, con tratti più marcati, il profilo storico-religioso di un personaggio che ha lasciato tracce durature della sua opera di pastore e di uomo del suo tempo. Innanzi tutto direi che uno dei problemi che si pone è quello della collocazione del Petagna nel quadro dell’episcopato meridionale di fronte ai problemi dell’unificazione nazionale nei primi decenni post-unitari. Sappiamo quali drammatici anni visse allora la Chiesa meridionale, quali profonde divisioni spaccarono buona parte del clero e degli Ordini religiosi, quali e quanti pregiudizi accompagnarono la Chiesa e l’episcopato ritenuti fautori della de post monarchia borbonica, protettori del legittimismo e perfino del brigantaggio! Qualsiasi mossa, qualsiasi atto, qualsiasi affermazione di princìpi e di diritti religiosi era n letti e valutati in chiave politica e, quindi, denunciati alla magistratura come prove di opposizione al governo ed al nuovo ordine costituito. Non poche Lettere pastorali furono sequestrate e i vescovi furono trascinati nelle aule dei Tribunali; non pochi furono i vescovi costretti a la sciar le loro sedi ed a scegliere la via dell’esilio perché sospettati di mene reazionarie e di congiure antiunitarie. Più di 60 vescovi del Mezzogiorno furono costretti a la sciar le loro diocesi ove poterono fare ritorno soltanto dopo la famosa circolare del Ricasoli ai prefetti alla fine del 1866. L’episcopato meridionale, sin dal 1859, aveva preso posizione a favore ed a difesa del potere temporale del Papa e tale posizione fece sì che tutto l’episcopato fosse considerato poi antiunitario, laddove non di altro si trattava che della difesa dei diritti della Chiesa e della libertà del Pontefice. Anche il vescovo Petagna seguì la sorte di gran parte dell’episcopato meridionale. Il 20 settembre 1860, messo in condizioni di non poter esercitare liberamente le funzioni vescovili, si imbarcò per Marsiglia, ove ripararono anche il vescovo di Sorrento Apuzzo e il vescovo di Reggio Calabria Riccardi. Ciò non significò, però, una fuga dalle proprie responsabilità nei confronti del gregge affidato alla sua cura. Anche dall’esilio egli continuò ad esercitare le sue funzioni e ad esortare il clero ed i fedeli con una assidua corrispondenza e con Lettere pastorali. Né l’esilio rappresentò una soluzione di continuità nella sua pastoralità, tutta protesa a promuovere la tutela della fede, la protezione e l’assistenza dei poveri e dei derelitti, l’attivazione di confraternite e congregazioni religiose aventi come fine precipuo il recupero della fede e l’esercizio della carità.
Il problema storico dell’atteggiamento dell’episcopato meridionale dinanzi alla rivoluzione garibaldina prima ed allo Stato unitario dopo è stato affrontato in questi ultimi trent’anni con studi ed indagini di ampio respiro: sono stati rivisti luoghi comuni a lungo dominanti nella storiografia meridionale, sono stati spazzati via molti pregiudizi di chiara matrice anticlericale, sono state spiegate le ragioni profonde del comportamento dell’episcopato alla luce delle Lettere collettive sia del periodo borbonico sia del periodo post-unitario, che apertamente rivelano una linea di condotta ispirata strettamente ad interessi ed esigenze religiosi: la difesa della fede, la libertà del Sommo Pontefice, il libero esercizio del sacro ministero. Il 1860 non fu soltanto una rivoluzione politica, ma anche una rivoluzione religiosa, come ebbe a scrivere un contemporaneo di quegli avvenimenti, Alfonso Capecelatro divenuto poi arciv. di Capua e cardinale di S.R.C. Se si pensa che allora, con una serie di leggi e decreti, definiti per il loro radicalismo leggi eversive, furono soppressi monasteri, conventi e Capitoli collegiali; che furono sequestrati e venduti all’asta i beni ecclesiastici insieme a quelli delle Mense vescovili e delle chiese ricettizie, si avrà l’idea della ventata liquidatrice e dello sconvolgimento delle strutture ecclesiastiche operati nel Mezzogiorno tra il 1861 e il 1870. Si comprenderà allora quale fu il dramma di molti vescovi e di molti esponenti del clero che si videro nella impossibilità di provvedere ai compiti essenziali del loro sacro ministero sotto la sospettosa ed occhiuta vigilanza della Polizia e delle autorità governative.
La tempesta che colpì la Chiesa meridionale non fu soltanto di ordine strutturale a seguito degli incameramenti e vendita dei beni ecclesiastici ma fu anche di ordine sociale: le classi più elevate della società — la nobiltà e la borghesia —, tradizionali alleate della Chiesa in quella politica di alleanza trono- altare che aveva predominato negli ultimi quarantacinque anni del regno borbonico, avevano preso le distanze dalla Chiesa attraverso l’indifferentismo sul piano religioso e l’anticlericalismo sui piano politico. La Chiesa, spogliata dei suoi beni e abbandonata dai suoi tradizionali sostenitori, non poteva contare che sul popolo e sul laicato cattolico formatosi in quella fitta rete di confraternite e di luoghi pii, che fece come da argine all’ondata di miscredenza e di secolarizzazione. Dopo il 1870, la Chiesa meridionale con il rinnovamento di gran parte del personale vescovile, si configurò nel suo insieme più povera e più evangelica, più vicina al popolo di quanto non lo fosse stata nei decenni precedenti durante i quali le sue strutture e il suo personale erano stati strumentalizzati per reggere una impalcatura monarchica in continuo inarrestabile declino.
In tale quadro si inserisce, con autorità e prestigio, la figura del vescovo Petagna che resse la diocesi di Castellammare di Stabia dal 1850 al 1878. Egli si forma nell’ambito di quel clero napoletano, da cui i Borboni erano soliti scegliere i vescovi da destinare alle sedi di maggior rilievo del Mezzogiorno e che si distinguevano per pietà e cultura. Nella sua Bolla di nomina alla sede di Castellammare, a soli 38 anni, era stata sottolineata la sua attività sacerdotale svolta nelle chiese di Napoli nel settore dell’istruzione religiosa impartita ai giovani raccolti nelle Cappelle serotine e nell’assistenza ai poveri ricoverati nei nosocomi. A tale linea di azione religiosa il Petagna uniformò la sua pastoralità sia nell’ultimo decennio borbonico sia nel periodo post-unitario, nonostante i mutamenti radicali intervenuti. Direi, anzi, che esaminando gli atti del suo episcopato — dalle Visite pastorali alle Relazioni ad limina dalle Lettere pastorali ai decreti di erezione dì nuove congregazioni religiose — appare evidente una linea di continuità tendente in modo particolare ad incidere fortemente sulla formazione religiosa, sulla difesa della fede, sullo spirito di carità allo scopo di promuovere una religiosità attiva e operosa, rivolta soprattutto a lenire ì disagi dei ceti più poveri ed emarginati. La sua è una pastoralità rigorosa e severa che non ammette compromessi, che è pervasa da una profonda spiritualità e dalla consapevolezza dei rischi e dei pericoli che le nuove diffuse dottrine razionaliste e materialiste potevano rappresentare per la salvaguardia del gregge affidato alle sue cure. Ma essa è anche sollecita ed aperta ai problemi sociali del suo tempo: da quello dell’infanzia abbandonata agli orfani, da quello delle donne periclitanti agli infermi poveri e derelitti.
Se si dovesse definire in termini appropriati la figura del Petagna, oltre che « difensore della fede e « vescovo della carità » adoperati dal dott. Parascandolo, direi che si potrebbe definire « il grande fondatore di nuovi istituti e congregazioni religiose » con particolare riferimento al Sodalizio degli Immacolatisti, alla Congregazione dei Missionari sotto il titolo dell’Immacolata Concezione e di S. Alfonso de’ Liguori, alla Congregazione delle Vittime dei Sacri Cuori. Si tratta di congregazioni di diritto diocesano, che furono le novità introdotte prima dal Petagna e poi da altri vescovi meridionali, allo scopo di promuovere l’assistenza religiosa e sociale negli strati più abbandonati del popolo, sfuggendo alle norme previste dalle leggi eversive che avevano soppresso gli Ordini religiosi e ne avevano incamerato i beni. Le Congregazioni di diritto diocesano, vale a dire i nuovi istituti canonicamente eretti con decreto del vescovo, costituivano i nuclei avanzati di una rinnovata presenza della Chiesa in mezzo al popolo, utilizzando tutte le migliori energie per una riconquista religiosa della società. Era, in altri termini, la valorizzazione di un potenziale religioso radicato negli strati popolari che aveva bisogno di nuovi e più adeguati strumenti per esprimere tutte le sue capacità di aggregazione e di affermazione dei princìpi cristiani così come nei secoli precedenti avevan fatto le Confraternite, che si erano innervate nei gangli vitali delle società rurali ed urbane. Fu questa certamente la grande intuizione del Petagna; di aver compreso che dopo la soppressione degli Ordini religiosi, dopo la liquidazione dell’asse ecclesiastico, dopo il ridimensionamento del clero secolare, dopo il declino delle Confraternite, dopo la crisi della parrocchia e degli enti collaterali, occorreva trovare nuove forme di presenza religiosa più adeguate ai tempi e tali, comunque, da sopperire ai vuoti che si erano venuti a creare nell’interno dell’organizzazione ecclesiastica.
L’erezione canonica con Bolla vescovile dell’Istituto delle Religiose Compassioniste Serve di Maria e della Congregazione delle Religiose dei Sacri Cuori nel 1871 nonché dell’Istituto monastico delle Alcantarine nel 1874 rispondeva a questa intuizione e a questi scopi: difendere la gioventù dalle « tenebre del secolo », raccogliere ed educare le fanciulle povere ed orfane, istruire la gioventù nell’intelletto e nella pietà, aiutare i parroci nelle opere di misericordia, visitare e curare le donne inferme istruendole sui rudimenti della fede. Certamente dei nuovi Istituti religiosi fondati dal Petagna il più vitale fu quello delle Religiose dei Sacri Cuori. Già da tempo egli aveva in mente di istituire un ordine di suore addette all’educazione delle fanciulle sia con pensionato interno che con scuola esterna, Ne aveva scritto anche al Prefetto della Congregazione dei Vescovi e Regolari accennando al fatto che già vi era a Castellammare « una persona di santa vita » Melania Calvat, la pastorella della Salette, che già operava con un convitto e scuola esterna sotto il titolo della « Santa famiglia ». Nel 1871, il Petagna aveva pensato di trasformare il convitto in un istituto monastico per il quale aveva previsto un apposito fabbricato che si stava costruendo. Anzi, aveva chiesto al Pontefice che Suor Maria Chiara Bischetti, clarissa del Monastero di S. Bartolomeo in Castellammare, uscisse dalla clausura per due o tre anni per portare a compimento l’opera. La Bischetti era indicata come la persona adatta per gettare le fondamenta del nuovo Istituto: era « molto istruita, di distinta famiglia napoletana, di grande pietà e spirito religioso », più adatta della Calvat ad occupare la carica di Superiora della nuova comunità. La Congregazione dei vescovi e Regolari diede il suo assenso all’erezione del nuovo Istituto e a partire dal luglio 1871 il primo nucleo si insediò nel nuovo fabbricato sotto la direzione di Suor Maria Chiara Bischetti. La denominazione assunta allora fu quella di « Suore Vittime dei Sacri Cuori », trasformato, poi, in « Suore dei Sacri Cuori » quando, superati i limiti diocesani la Congregazione si estese in altre regioni fino a contare nel 1932 ben 21 Case dislocate in molte diocesi ove si dedicò, con tenace impegno e carità cristiana, ad istruire ed educare la gioventù, a curare i più poveri e gli infermi, i vecchi degenti nei nosocomi e negli ospizi. Questo Istituto fu certamente l’opera più feconda voluta dal grande vescovo; un Istituto che ancor oggi, a distanza di oltre un secolo, continua ad effondere in ogni ceto sociale quello spirito di operosa carità che fu propria del suo fondatore, la cui felice intuizione aprì la via ad altre congregazioni di diritto diocesano fiorite nel Mezzogiorno nella seconda metà del secolo ad opera di Bartolo Longo nella Valle di Pompei, del Can. Annibale Maria di Francia in Sicilia e in altre parti d’italia, del dott. Eustachio Montemurro nel Materano ed in Puglia.