Regole originali

Introduzione

1. Iddio, volendo elevare l’uomo ad un fine soprannaturale che era quello della beata visione ed eterna gloria nel Paradiso, lo creò non solo con l’anima ricca di tante doti naturali da farne una bella immagine simile a Lui, ma profuse ancora in seno a quella, tale abbondanza di grazia, da metterlo a parte della sua divina natura e così rendere quella immagine pura, santa, perfetta e riverberante in sé quella Divinità di cui era ritratto.

2. Questo però poteva conservarsi unicamente per mezzo di’ una stretta, costante, amorosa unione col suo divino Originale. Doveva essere tale per adesione di volontà, che fermamente s’attenesse alla volontà di Dio, da farne una in Lui per unione di cuore, che si stringesse al cuore di Dio da divenire un solo col suo per medesimezza di spirito, che aderisse a Dio da essere un medesimo spirito divino; «Chi sta unito col Signore, è un solo spirito con Lui» disse l’Apostolo – (I Coro 6,17).

3. Tanto volle Iddio significare all’uomo col comando d’astenersi d’un sol pomo, mentre che poteva cibarsi di tutti gli altri nel Paradiso terrestre. Era quello un piccol segno che Dio richiedeva dall’uomo di sua volontà docile, obbediente, sommessa. Quindi, appena, per suggerimento del demonio, la volontà dell’uomo divenne ribelle a quella di Dio, col gustar di quel pomo, la bella immagine divina fu cancellata dall’anima sua, fiera tempesta di passioni si levò nel suo cuore, il suo spirito fu dominato dal demonio a cui aveva aderito ed egli divenne esule dal paradiso della terra e dal Paradis.o del cielo. Ed il diritto ad entrarvi fu perduto perché non più conservava la bella immagine di Dio impressa nell’anima sua.

4. Se non che questo buon Dio, tocco da compassione verso questa ingrata creatura, nelle viscere di sua infinita misericordia volle mandare il suo divin Figliuolo sulla terra il quale, vestito della carne dell’uomo peccatore, e gravato della soma dei peccati di tutti gli uomini, potesse soddisfare coi meriti infiniti di Uomo-Dio la divina giustizia, placare l’ira infinita che doveva versarsi eternamente sui miseri mortali e riformare la perduta immagine di Dio nell’uomo, meglio di quel che fosse prima difformata, reintegrandolo nei suoi perduti diritti di grazia, di amore, di gloria.

5. Quanto sono ammirabili in quest’opera e trascendenti ogni mente umana, l’Onnipotenza, Sapienza e Bontà divina che si nascondono e pure gloriosamente trionfano in un Dio Incarnato! Quanto è ineffabile, attraente, caro quel bacio amoroso che si danno la Giustizia e Misericordia di Dio sulla fronte di quest’Ostia innocente, santa ed immolata sol per amore! Ma insiememente quanto dovrebbe di continuo sulla terra penetrare ben addentro ogni mente e dominare soavemente ogni cuore questo magnifico mistero che è Gesù Cristo Vittima d’infinita carità immolata per gli uomini!

6. E nulladimeno è mestieri pur confessare che soltanto per questa oblazione monda ed accettevole a Dio, per questo sacrificio d’infinito valore, per questo Agnello divino ucciso per togliere i peccati del mondo, l’uomo, giuste le espressioni della Bibbia non ha più intelligenza, non ha cuore, anzi il suo cuore lo ha abbandonato affatto, allorché trattasi di questo grande oggetto.

7. Della vita celeste ed eterna, rispetto alla quale la vita temporale e terrena è vera morte, potremmo cominciare a godere anche quaggiù coll’applicarci a conoscere Dio per mezzo di Gesù Cristo. «Or la vita eterna si è – come parlava S. Giovanni – che conoscano Te, solo vero Dio e Gesù Cristo mandato da Te» (cap. XVII, 3).
Eppure la vera scienza di Dio per mezzo di Gesù Cristo è la più negletta, anzi derisa dai ciechi mondani. Dovrebbero i cristiani, ad assicurarsi l’eterna salvezza, formare la loro gloria di non sapere altra cosa se non Gesù Cristo e questi crocifisso, come faceva S. Paolo (I Cor. Il,2), eppure essi rifuggono dall’internarsi nella considerazione di questo Redentore satollo di obbrobri i e di pene per i loro peccati.

8. Ma viva Iddio! che non mancarono né mai mancheranno anime predilette le quali, prevenute da dolcezza sovrumana della divina grazia, favorite dalle attrattive d’irresistibile vocazione celeste, chiamate alla più intima ed amorosa sequela di Gesù crocifisso, lo seguiranno dappertutto e sempre fedelmente pel Calvario, sulla Croce, alla morte. Ed anche in questi deplorabili giorni di tanta freddezza, rinnegamento, apostasia dal Cuore adorabile di Gesù, fatto
Vittima per noi, Egli vuole mostrare la forza della divina sua grazia con l’attirare a sé di mezzo al mondo anime del debole sesso, le quali a temperare le sue immense amarezze e dargli lieve ma dolce compenso nelle infinite sue pene, coraggiose s’avanzano per la via del Calvario, salgono animose l’altare della croce, l’abbracciano strettamente alloro petto, si sforzano a penetrare nell’intimo del cuore di quella Vittima infinita, ed esclamano voler essere chiamate ed -addivenire vere vittime del Sacro Cuore di Gesù.

9. Non è avventato ardimento, come parrebbe a primo aspetto, volersi chiamare vittime a somiglianza di Gesù, Vittima per noi sulla croce. Sta scritto che noi dobbiamo essere santi in somiglianza di Dio che è santo, (1 Pt. 1,16), perfetti siccome il nostro Padre celeste è perfetto (Mt. V,48) , ed anche il divin Verbo si fece uomo, perché l’uomo, fatto partecipe della divina natura, (2 Pt. 1,4) divenisse Dio per grazia (Gv. X,34).
Attinenza poi intima, speciale, eccelsa è quella che passa fra l’anima cristiana amante e Gesù Cristo amato. Formatasi Egli, dal suo aperto costato sulla croce, una Chiesa pura, santa, immacolata (Ef. V,2?), divenne capo di questo suo mistico corpo, sposo di questa sua dilettissima sposa.
E tale è la virtù che si trasfonde da quel capo in quel corpo, tanta la misteriosa forza che unisce quello sposo divino all’amata sua sposa, talmente valida la medesimezza di affetti, di sentimenti, di vita che stringe l’uno all’altro, da potersi dire mirabilmente entrambi una sola cosa.

10. Quasi fosse poco l’arcano linguaggio dello Spirito Santo, che per bocca di S. Paolo cercò una figura dell’unione di Cristo colla Chiesa nel gran Sacramento dei nostri progenitori nell’Eden, (Ef. V,32) Gesù Cristo, per farci elevare il pensiero a più sorprendente altezza, ci addita l’unità di Lui col suo divin Padre, come tipo della meravigliosa ed ineffabile unione che egli forma con l’anima sua sposa fedele.

11. Oggi non si sente chiara al fonte battesimale la voce divina, né si vede una bianca colomba come avvenne al fiume Giordano, (Mt. 111,16-17) ma non è meno pronunziata quella voce misteriosa sull’anima che esce dal rigenerànte lavacro, né manca di scendere invisibilmente su di lei quella misteriosa colomba. Di quella sovrabbondante pienezza di Spirito Santo che discese sulla santa Umanità di Gesù Cristo battezzato nel Giordano, è messa a parte ogni anima quando vien tinta dall’acqua del Santo Battesimo; della pienezza di Lui noi tutti abbiamo ricevuto, disse S. Giovanni (Gv. 1,16).

12. E sopra dell’anima stessa sulla terra poco innanzi detestata ed abominevole al divino sguardo per la colpa, Iddio dal Cielo intuona la medesima voce di soave compiacimento come la fece sentire al battesimo di Cristo. E non per altra ragione quest’anima comincia ad essere l’oggetto delle divine compiacenze, che per esser divenuta tutta cosa di Gesù Cristo per -mezzo del vincolo della beata carità. Sin d’allora l’Eterno Padre comincia a vedere in lei stampata la chiara copia di Gesù, delineato lo spirante ritratto di Gesù, impressa la viva immagine di Gesù.

13. A misura poi che l’anima si inoltra nella vita, e s’avanza negli atti di sode virtù ed ardente amore, quella copia risulta più chiara, quel ritratto si fa più perfetto, quella immagine diviene più viva, da potersi dire che essa vive tutta nel divino oggetto amato, anzi meglio con l’Apostolo, che Gesù Cristo è quello che vive in lei (GaI. Il,20).

14. Questa trasformazione prodigiosa, di cui a mala pena potrebbe aversi una smorta e lontanissima immagine in quella degli amanti terreni, si viene talmente radicando e facendo profonda nell’anima al lume di un Uomo-Dio infinitamente amabile ed infinitamente amante, che l’anima vorrebbe in corrispondenza di caldissimi affetti addivenire sempre più oltre, cosa tutta sua, nascondersi e perdersi interamente in Lui, spendere tutti i suoi giorni e dare la propria vita per chi dette la sua per lei, accrescere sempre più le fiamme interne dell’ infocato suo cuore, essere incenerita vittima sul medesimo altare della croce, nascosta nel cuore di Gesù Cristo che è Vittima sacrificata dall’eccessivo amore per noi.

15. È vero che i martiri, i quali imporporarono col loro sangue la veste inconsutile della sposa del Nazareno, pare che più palpabilmente dichiarassero col loro martirio la veemenza di quel fuoco divino da cui erano posseduti, e perciò più convenientemente meritassero il nome di vittime immolate sui roghi, sotto le mannaie, attorno alle ruote, in braccio alle fiere.
Non mancano però, anche senza lo spargimento di sangue, altri martiri e_ altre vittime. Basterebbe per la verità dell’asserto ricordare, che la beatissima Vergine Maria ancorché non ne avesse data una stilla, pure è la Regina dei Martiri.

16. Vi è altro martirio da sostenersi dalle anime sante per le sublimi virtù e perfetta morale del Vangelo, il quale secondo il concetto di S. Bernardo, sebbene non apparisse tanto orroroso per applicazione di aspri e crudi tormenti, pure non è meno prezioso innanzi a Dio e ricco di grandi meriti per la interiore intensità e la lunghezza delle diuturne sue pene.

17. Santa Maria Maddalena de’ Pazzi chiamò martire d’amore S. Luigi Gonzaga, S. Francesca di Chantal diceva alle sue religiose: «Mie care sorelle, né S. Basilio né la maggior parte dei Padri e colonne della Chiesa furono martirizzati… perché si trova un martirio che si chiama il martirio d’amore, dentro del quale, mantenendo Iddio la vita ai suoi servi e serve per farli faticare in servizio della sua gloria, li rende martiri e confessori insieme».

18. Interrogata poi del quanto durasse questo martirio, rispose: «Dal primo momento che senza riserva ci diamo a Dio sino all’ultimo di nostra vita, ma questo s’intende per cuori generosi, i quali senza mai allontanarsi, sono fedeli nell’amore; poiché le anime deboli di poco amore e costanza, non sono da Dio martirizzate, anzi le lascia camminare passo passo perché teme che non gli scappino».
Chiesta ancora la Santa se questo martirio del cuore potesse uguagliare quello del corpo, rispose: «Non cerchiamo l’uguaglianza, sebbene io stimo che l’uno non ceda all’altro, perché l’amore è forte come la morte, ed i martiri d’amore patiscono mille volte più conservando la propria vita per fare la volontà divina, che se altrettante volte bisognasse darla per testimonianza della fede, dell’amore e della loro fedeltà».

19.Ecco adunque il vero concetto di vittime di quel divino Cuore che volle farsi Vittima per la salvezza degli uomini. Vuol dire anime le quali, pesate le terrene cose con la bilancia dell’eternità, considerato al lume della fede la viltà, la fralezza ed il nulla delle cose del mondo, reputato al caldo del divin amore, come abominevole immondezza gli onori, i beni, i piaceri di quaggiù, ad altro non aspirano che a fuggire il mondo per far lucro di Gesù Cristo. E siccome il talamo nuziale del loro Sposo divino è la croce, esse, amorosamente congiunte alla croce, van ripetendo con l’innamorato Paolo: “Per Lui il mondo è a me crocifisso ed io al mondo». (GaI. VI,14).

20. Nulladimeno mentre la fiamma di questo fuoco che consuma, essendo Iddio chiamato da Mosè “fuoco divoratore» (Deut. IV,24) non giunge alla sua sfera nei cieli, non potrebbe starsene pigra e neghittosa sulla terra; abbisogna di continuo pascolo attorno a sè, onde secondo il divino beneplacito, non andasse mai spento sull’altare del cuore (Lv. VI, 5-6). Questo fuoco perpetuo come volevalo Iddio, per mantenersi sempre vivo e gagliardo va in cerca di perenne alimento nella cerchia dei prossimi che gli sono dattorno, per poi tornar nuovamente ad attingere forza al suo centro che è Dio. Un cuore così acceso, per lo spirito di Gesù Cristo che lo investe e spinge, corre per tutto ove trova nelle creature umane interessi di Dio da difendere, gloria di Dio da zelare, voleri divini da compiere.

21. Gesù Cristo Vittima per i peccati degli uomini, se cercando solo la gloria del suo divin Padre li purificò nel bagno salutare del sangue suo preziosissimo, pure fu tutto a sfogare il suo amore immenso per essi, coll’istruirli se ignoranti, collo sfamarli se poveri, col guarirli se infermi, col sollevarli se afflitti d’ogni maniera. E se nel tempo del suo conversar cogli uomini sulla terra molto s’occupò delle svariate miserie della loro vita del corpo, mirava principalmente alle piaghe delle anime, che voleva mondate, avvivate, rinvigorite, per vederle guadagnate al trionfo della grazia e della gloria di Dio.

22. Or l’opra di Cristo non s’arrestò mai nella sua chiesa, e si venne sempre riproducendo per lo mezzo di tanti cuori modellati sul suo. In tutti i secoli a misura del maggiore straripamento dell’errore, dell’empietà, della corruzione nel campo della Chiesa, non manca Iddio suscitare anime predilette che sorgono a rimettere argine per arrestare in parte quello impetuoso torrente.

23. Diciamola meglio, G. Cristo medesimo, che pel bene dei suoi eletti suscita la tempesta a creare la calma, sceglie anime a Sé più care, le ricolma del suo spirito, le ritempra con la poderosa sua grazia, le arricchisce con la sua forza sovrumana, le modella sopra di Sé medesimo vittime animose ed anelanti il vero bene delle anime e la bene intesa gloria di Dio, e le manda in mezzo alle procelle delle umane passioni per sedarle o affievolirle colla luce della verità,
colla forza della religione, col balsamo della soave carità.

24. È questo il compito delle Vittime del Cuor di Gesù, anzi questo è il lavoro da operarsi a forza di cocentissimo amore per via di congiungimento, di comunicazione, di trasfusione, di trasformazione del cuore di queste amate spose del diletto loro Sposo Gesù.

25. Né questi sono concetti fantastici di esaltata immaginazione o di esagerato misticismo, da non potersi vedere attuati in anime fervorose e ben fedeli allo spirito di loro vocazione in seno alla Chiesa di Gesù Cristo. Il ritratto sinora divisato delle Vittime del Sacro Cuore non è altro se non il risultato puro, schietto, semplice, senza alterazione alcuna della vita di quei santi i quali furono eletti strumenti e salutari canali posti da Dio in seno alla sua Chiesa, per versare e diffondere fra gli uomini le copiose grazie di sua immensa bontà e di sua carità infinita.

26. Certo i soli santi potevano operar tanto di bene ed essere additati come prodigi di carità al disopra delle deboli forze dell’umana natura. Perciò appunto non potrà mai essere un’anima vera vittima del Cuore di Gesù per praticare opere di carità e versare largamente i suoi benefici effetti sui prossimi, senza esser santa davvero.

27. E siccome i santi addivenivano più o meno benefattori dell’umanità a misura che attingevano dalla fontana del divino amore che è il Cuore di Gesù, parimenti, perché potessero far molto bene in mezzo al mondo le Vittime del Sacro Cuore, debbono starsi tenacemente strette a questo, riempirsi fu or misura di quell’acqua salutare celeste di cui Egli è la sorgente, e così più facilmente diffonderne con abbondanza in seno ai loro simili.

28. Il Vangelo scritto per ispirazione divina ed il Vangelo in azione che è la vita dei Santi modellata su quello, altro non intimano ai seguaci di Cristo che violenza a se medesimi, odio all’anima propria, guerra alle interne passioni, abnegazione alla volontà, abbracciamento alla croce, insomma una continua morte. È vero che questa mette ribrezzo e fa paura agli uomini mondani, ed anche in parte alle anime deboli e poco illuminate, ma le anime generose e meglio rischiarate da viva fede hanno sempre lo sguardo fisso al loro amato Bene Crocifisso, ritraggono forza e dolcezza nello stare raccolte in quel Cuore squarciato, e quella mistica morte apparente per esse è vera vita.

29. Queste anime appariscono morte al mondo e veramente lo sono per lui; ma vivono di vera vita nascosta in Dio, perché vivono della medesima vita di Gesù Cristo. « Voi siete morti, diceva S. Paolo ai Colossesi, e la vostra vita è ascosa con Cristo in Dio» (Col. 111,3). Anzi diciamo piuttosto, Gesù Cristo medesimo forma la loro vita perché è l’anima che informa perennemente le azioni del loro corpo, come anche i pensieri della loro mente e gli affetti tutti del loro cuore. Il mio vivere è Cristo, mihi vivere Christus est, scriveva lo stesso Apostolo a quei di Filippi, e per tali anime il cessar di vivere non è perdita, perché il morire è un guadagno, et mori lucrum (Fil. I, 21).

30. Annoiato il loro cuore ed alieno da ogni cosa che sa di tempo, di senso, di terra, smanioso in mezzo a tutto ciò che in questa vita lo dissipa o, fosse pur lievemente, lo distoglie dall’unico oggetto amato, anela alla celeste ed eterna unione, dove non sarà più pericolo d’affievolirsi la fiamma dell’amore, né più timore di separarsi da quella beatitudine che godrà immensa e durevole pei secoli eterni coll’amato suo Sposo. Da ciò appunto deriva che queste vittime non si dipartano dal giacere sotto l’ombra dell’albero della croce e prender parte alla sua spirituale unzione: van ripetendo con la Sposa dei Cantici: «All’ombra di Lui che avevo desiderato io m’assisi: il suo frutto al mio palato fu dolce» (Cant. 2, 3).

31. Per loro la Vittima del Calvario, nascosta poi in sacramento, è la beata calamita che attira con soavità, forza e dolcezza tutti i pensieri della loro mente, come tutti gli affetti del loro cuore. Il martirio di carità non meno che il martirio di sangue cavò sempre la sua incrollabile e consolante fermezza dal sacrificio della croce. Perciò la chiesa, nell’immolarlo che fa incruento sugli altari, va dicendo per bocca dei suoi ministri: « È tale il sacrificio che noi offriamo a Dio, che da Lui come da propria fonte ritrae principio e forza ogni martirio» (Secr. Fer. V dopo 111 di Quar.). Ed anche allora quando i Martiri erano vicini a dar la vita per Cristo, usava ogni industria e vigilanza onde non mancasse -loro il gran conforto della santa Eucaristia, per sostener vigorosi l’estrema lotta e riportarne vittorioso trionfo.

32. Qui si fa chiara l’idea, come le Vittime del Cuore di Gesù cioè i martiri del suo amore, debbono rivolgersi incessantemente, applicatamente, ardentemente attorno alla Vittima d’infinita carità, dimorante sempre viva in mezzo a loro nei santi Tabernacoli. Quindi lo stare innanzi a questi in adorazione, che van facendo giorno e notte per turno secondo il disposto dai superiori, non è da dirsi un’opera dell’Istituto, ma l’anima che inspira e dà vita a tutte le opere di carità, alle quali piacerà a Dio d’adoperarle. E queste svariate opere in cui si eserciteranno a bene de’ prossimi, non debbono considerarsi altrimenti che come un alimento continuato ed un caldo sfogo di quell’ardore che attingono dall’amoroso petto di quel Prigioniero d’Amore.

33. Laonde le destinate successivamente ad adorarlo davanti all’altare sono da considerarsi come le rappresentanti di tutte le altre, uffici. E queste sebbene non potessero in atto associarsi a quelle avventurose con la presenza del corpo, intendono però sempre col cuore volar d’attorno a quel medesimo altare, e riposarsi in quel beato e mistico nido di pace e di carità.

34. In quello che siamo venuti dicendo finora delle Vittime, le abbiamo sempre chiamate del 5acro Cuore, e non come veramente sta in fronte al titolo di queste regole,Vittime dei SS. Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria. Con avvedutezza abbiamo adoperato in tal guisa. Primamente perché volevamo far ben rilevare che l’unico oggetto, il quale deve avere ampio ed intero possedimento del cuore delle Vittime, è l’adorato Cuore di Gesù, ed i Cuori di Giuseppe e Maria sono da considerare come mezzi di aiuto e di stimolo fornitici da Dio a poter sempre più e meglio avvicinarci, penetrare ed innestarci nel Divin Cuore adorabile del Redentore. In secondo luogo sono tali le amabili doti e sante virtù di Maria e Giuseppe, e siffattamente i loro cuori battono all’unisono con quel di Gesù che dir si possono un sol cuore ed un’anima sola. Di guisa che non si può guardare dentro il Divin Cuore dell’Umanato Verbo ed esserne presi d’amore, senza anche vedervi vivamente effigiati e parimenti amare i Sacri Cuori della Santissima Vergine Maria sua Madre e di S. Giuseppe suo padre putativo.

35. L’essere stata consacrata la diocesi di Castellammare di Stabia nell’anno 1871, ai Sacri Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria, fece sorgere il disegno che le sacre vergini del novello Istituto che era in avviamento potessero intitolarsi ai tre Sacri Cuori: quello di Gesù, Vittima d’infinito amore, nella quale sola debbono trasformarsi quelle vergini vittime, e quei di Maria e Giuseppe, che sono copie le più perfette del divino Originale, presentano più agevole via per avvicinarsi a quello, e giungere al bramato compimento di stretta ed amorosa unione delle dilette spose col loro sposo Gesù.

36. Per tal modo la famiglia della casa delle Vittime dei Sacri Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria, deve andar sempre modellandosi sulla santa Famiglia di Nazaret, e questa dovrà tenersi da quelle sempre dinanzi agli occhi, come terso e vivido specchio di purissima luce, che riflessa nei loro cuori, vi formerà somigliantissima e santa immagine della beata unione in terra di quei tre sacratissimi Cuori.
Queste vittime adunque dovrebbero applicarsi con vero impegno e magnanimo ardore ad imitare le sode virtù, che risultano chiare e risplendenti in quei santi personaggi.

37. Se ogni anima cristiana che risolve di ben volere avvicinarsi a Dio deve cominciare dal fermamente credere, poiché senza la fede è impossibile di piacere a Dio, e chi a Dio si accosta fa di mestieri che creda (Ebr. XI, 6), tanto più debbono radicarsi profondamente nella fede quelle anime che sono scelte da Dio a rilevanti imprese per la sua gloria.

38. «I Santi, scriveva l’Apostolo agli Ebrei, i Santi per mezzo della fede vinsero i grandi del secolo, operarono la giustizia, raggiunsero le promesse… furono forti nella battaglia… mendichi, angustiati, afflitti, e pure il mondo non meritava di averli in mezzo a sé… Al Signore furono accetti per la testimonianza resa alla loro gran fede» (Ebr. XI, 33-39).

39. Mosè, amico confidente di Dio, nel conversare che fece con Lui, ebbe a fortificare talmente la sua fede che sostenne la sua fede quasi vedesse l’invisibile (ib. 27). Quanta esser dovette ed a quale grado di sublimità non giunse la fede di Maria e Giuseppe nella loro dolce, intima, familiare e per tanti anni continuata compagnia col loro amato Gesù! Tenendosi con gran fede, le Vittime in cara e durevole compagnia di Maria e Giuseppe, troveranno sempre anche Gesù in mezzo a loro.

40. L’umiltà dev’essere la virtù principalmente sentita, ben radicata ed altamente profonda nel cuore delle Vittime. Se il cuor di Davide al solo pensarsi stargli presente Iddio, s’abbassava talmente da sentirsi come annientato dinanzi a Lui (Sal. 38,5); quanto non dovevano inabissarsi nel proprio nulla Giuseppe e Maria alla presenza di Gesù Uomo-Dio che stava sempre con loro. AI contemplare che facevano un Dio esinanito per gli uomini, sconosciuto dagli uomini, sommesso agli uomini, servendo in una stanzuccia e lavorando in una misera bottega, quale contraccolpo esser dovea nell’anima loro d’abbassamento, d’umiliazione, d’annientamento!

41. Un’anima che non è sommamente compenetrata del proprio niente, anzi del suo essere addivenuta peggiore del niente per la colpa, non potrà mai essere buona a qualche cosa di grande per Dio. Il suo cuore non sarà mai fertile di grandi virtù, perché negandogli giustamente Iddio le soavi rugiade della sua grazia, resterà sempre un terreno arido e perciò infecondo di sante opere, ma una Vittima, sincera sposa di Gesù, che nell’intimo del suo cuore non si diparte mai dall’amabile e saporosa compagnia di quei tre Sacri Cuori, e specialmente di Gesù, nascosto e più che annientato nella dimora Eucaristica, non può a meno di perdersi sempre più nel proprio nulla, e fare ogni giorno nuovi guadagni di profonda e sentita umiltà.

42. Se non che in questo miserabile cuore dell’uomo decaduto sorgono sempre ed in gran copia velenosi germogli di amor proprio, spine pungenti di depravati affetti, erbe pestifere di sensi ribelli; ed a questi numerosi nemici domestici che infestano l’interno, s’aggiungono nemici esterni, che sono il mondo e satanasso, i quali collegati coi primi s’avventano ripetutamente coi loro violenti assalti a far sicura preda e pascolo di quel povero cuore” Non v’è altro scampo per l’uomo in questa fiera lotta per riuscirne vittorioso colla divina grazia, che una pronta, vigorosa ed immancabile mortificazione di tutto se stesso e precipuamente dei suoi sensi esterni ed interni. E potrebbe poi questa esser cosa scoraggiante per le Vittime che con le loro preghiere, con lo spirito di orazione e con la familiare unione di Gesù, Giuseppe e Maria, si tengono sempre raccolte in una vita interiore? Non potrà avvenire altrimenti in esse che una vigilanza esatta, una fermezza irremovibile, una resistenza coraggiosa, insomma una santa mortificazione pervenga a estirpare quei germogli, a spuntare quelle spine, a sbarbare quelle erbe, a rintuzzare quegli assalti e riportare avventuroso trionfo di tutti i pericoli di dentro e fuori il cuore loro.

43. Così disposto il terreno si vedrà senza meno l’aumento giornaliero di quell’edificio spirituale che va innalzandovi la grazia di Dio. Quando l’anima umile e mortificata s’impiega davvero a vuotarsi interamente di sé, e così vuota non presenta a Dio che il proprio niente allora Iddio e solamente allora, la riempie del suo tutto come si esprimeva S. Giovanni della Croce. Quindi una Vittima che non ha più volontà propria, gusterà e si alimenterà soltanto della volontà di Dio. Andrà ripetendo con Gesù che regna solo nel di lei cuore: «Il mio cibo è di fare la volontà di Colui che mi ha mandato, e di compiere l’opera sua (Giov. IV, 34). Umilierò me stessa fatta ubbidiente fino alla morte (Filo Il, 8).

44. Nella casa di Nazaret non vi era niente affatto, che sentisse di predominio di umana volontà: signoreggiava in quella unicamente e sempre da padrona la volontà di Dio. Questo trionfo totale e perfetto della divina volontà deve regnare ancora nella casa delle Vittime, ritraendo sempre copia dai componenti la santa famiglia di Nazaret. E questo impero assoluto della volontà di Dio, fa poi anche regnarvi la più bella unione di pace fra loro.

45. Quando in una casa ogni cosa è regolata e disposta da una sola volontà di un capo che saggiamente governa il tutto, e nessuno per ombra si mostra discordante dal suo dominio, non può a meno di vedersi una dolce unione di pensieri di sentimenti, d’affetti, perché ammirabile è l’unità dei voleri.
Senza alcun paragone poi risulterà prodigiosa assai più quella unione in una comunità religiosa, dove il forte amar di Dio ha preso possesso di tutti i cuori e li ha trasportati tanto soavemente in ben serrata unione fra loro, da rifulgervi a pieno il sovrano modello dei tre Cuori nella S. Casa di Nazaret.

46. L’Apostolo S. Paolo volendo dare un vigoroso e possente stimolo ai fedeli di Efeso, per fari i camminare la via di una grande dilezione scambievole, ben vide non poterlo trovare maggiore che in Gesù Vittima d’amore per gli uomini. « Camminate nell’amore, Ei diceva, conforme anche Cristo ha amato noi, ed ha dato per noi se stesso a Dio oblazione e ostia di soave odore» (Ef 5, 2). Laonde di quante saranno congregate nella casa delle Vittime dei SS. Cuori di Gesù Giuseppe e Maria si vuoi ripetere quello che scrisse negli atti degli Apostoli lo Spirito Santo, dopo esser disceso e aver riempito i cuori dei primi fedeli: E la moltitudine dei credenti era un sol cuore e un’anima sola (At. IV, 32).

47. Così è certamente, se lo stesso cuore sostanziale della Santissima Trinità come è chiamato lo Spirito Santo dai Padri della Chiesa, discendendo in ogni petto delle Vittime, ne prende ampio possesso e ne investe ogni fibra, sarà sempre un compatirsi l’un l’altra, un perdonarsi scambievolmente i difetti, un prodigarsi sollievo, aiuto e conforto a vicenda. Né potrà mai raffreddarsi e perciò indebolirsi il nodo che le stringe forte in questa ammirabile unione, perché esse si chiamano e vogliono essere infatti le Vittime imitatrici dei Sacri Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria.

48. Vi è anche di più. L’amore divino che bevono a larghi sorsi da questa fonte perenne, le rende in ogni ora maggiormente bramose di concorrere con l’opera loro al bene delle anime per vederne grandemente glorificato Iddio. Non sono i nostri prossimi senza distinzione figli dello stesso Padre nostro che è nei cieli? Non portano essi impressa nell’anima la stessa immagine e somiglianza di Dio? Non sono rosseggianti i loro cuori del medesimo sangue infinito che li ebbe riscattati? Non furono una volta e sono tuttora il bramato e caro oggetto cui mira sempre il cuore di Gesù nato per essi in una stalla, morto sulla croce, nascosto in sacramento? Non formano sulla terra ognora la sollecita e paterna cura di una provvidenza infinita che dal cielo guarda amorosamente su di essi? Non sono tutti protetti e difesi sotto il suo manto da Maria Santissima ed affettuosamente raccolti nel suo cuore materno, essendone dichiarata la Madre ai pie’ della Croce e fra le acerbe agonie del suo amato Gesù? Non sono forse infine, vuoi per la vita, vuoi per la morte, posti tutti sotto la protezione di S. Giuseppe, e perciò fortemente tutelati da lui, segnatamente ora che lo veneriamo dichiarato Patrono di tutta la Chiesa?

49. Perciò sebbene le Vittime non avessero oggi fra mano altra opera che quella dell’educazione delle fanciulle, la prima che Iddio ha voluto loro affidata, forse come la più utile in questi malaugurati tempi di depravazione e scostume, non è però la sola a cui tende lo scopo dell’Istituto.
Per ora, queste dilette spose di Gesù, s’applicano attorno a quei germogli del debole sesso con attenzione, con impegno, con amore, siccome faceva appunto il loro Sposo divino che tanto amava i fanciulli e, chiamatili attorno a sé, con pazienza prodigava loro encomi, benedizioni, carezze. Esse afferrando in mano l’istruzione letteraria voluta dal secolo la profondono in quell’età giovanile, se ne avvalgono a potere accortamente e con zelo inoculare la purezza delle verità religiose nelle loro giovani menti ed istillare la dolcezza della pietà cristiana nei loro teneri cuori.

50. Debbono pertanto le Vittime tenersi pronte ed abbandonate nelle mani di quell’Eterno Signore che il tutto dispone fortemente e soavemente, con ordine, peso e misura, secondo i tempi regolati dalla sua provvidenza infinita. Secondo Iddio dilaterà innanzi al loro sguardo l’orizzonte a percorrere, ed allargherà la cerchia alloro operare in carità, esse sempre docili e conformi allo spirito del loro Istituto correranno pronte dove l’infiammato zelo del Cuore di Gesù le andrà chiamando e non sarà povero, infermo, afflitto sia di corpo, sia di spirito, che non abbia a sperimentare la carità delle Vittime dei Sacri Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria.

51. Per raccogliere come in sommario il detto finora, e presentare come in scorcio l’idea di questo novello Istituto, conchiuderemo dicendo che alcune anime per divina chiamata, dopo dato un addio al mondo, ritirate nella Casa di Dio, sentitamente umili, profondamente mortificate, unite di cuore il più che possono a Gesù, morte a tutto, da povere, da obbedienti, da caste, strette da forte vincolo d’amore tra loro, veramente zelanti della divina gloria e del bene delle anime, si perdono interamente in Dio con l’amore, perché Iddio operasse in loro il bene pei prossimi con la carità; ecco il ritratto fedele delle Vittime dei Sacri Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria.

Obbedienza

52. Iddio stampò nell’uomo a larghe orme la sua immagine nella creazione, gli fece dono del suo proprio Verbo nell’ Incarnazione, volle straziata per lui la carne innocente e versato tutto il sangue di questo divin Figliuolo nella Redenzione, rende l’uomo partecipe della medesima sua divina natura, nella santificazione lo chiama infine a parte della stessa sua beatitudine eterna preparatagli nella glorificazione.

53. In vista di tanta diffusiva bontà, di così sviscerato amore, di tale generosità infinita, non è da meravigliarsi se molte anime ferite nel cuore da tanta dilezione, ed illustrate da Dio per singolare vocazione si danno a servirlo con grata corrispondenza e non avendo altro di proprio che la libera volontà, di questa gli fanno interamente dono spontaneo, sottomettendosi a chi fa le sue veci sulla terra col santo voto dell’obbedienza.

54. Voto, dice S. Tommaso, che per la sua eccellenza primeggia fra i voti religiosi, perché comprende in sè tutti gli altri, perché offerisce a Dio il meglio e più prezioso; perché avvicina maggiormente l’uomo al fine della religione, che è di consacrare se stesso a Dio. Perciò tutti i santi fondatori ripongono l’essenza della vita religiosa nell’obbedienza.

55. Dal salmista è dichiarata fiaccola che illumina le orme da poter sicuramente calcare nel cammino della vita. Dall’Apostolo, maestra che insegna il buono, il piacevole a Dio, il perfetto. Dal medesimo l’efficace mezzo che fornisce della vera libertà di spirito il cuore dell’uomo facendovi regnare lo spirito di Dio. Da S. Lorenzo Giustiniani la speciaIe sposa di un’anima fedele a Dio. Da Agostino la ragion divina conservatrice dell’ordine. Dal Crisostomo la nobiltà e grandezza che possa guadagnare un’anima sulla terra. Da S. Tommaso preziosa miniera che arricchisce di gran merito ogni nostra azione.
E quanto sia agevole questo straricchire col tanto solo gittarsi in braccio all’ubbidienza ce ne fa avvertiti l’Apostolo nella sua lettera agli Ebrei. Volendo egli dichiarare il perché raccomandasse tanto l’obbedienza ai superiori e di sottoporsi in tutto a loro, soggiunge: «lmperocchè vegliano essi, come dovendo rendere conto delle anime vostre».

56. Che bel provvedimento è questo, ripiglia S. Lorenzo Giustiniani, l’esserci dato d’imporre sulle altrui spalle ogni nostro fardello in questo disastroso cammino, il poter averci un debitor surrogato per noi innanzi a Dio. Quindi S. Giovanni Climaco chiamava l’obbedienza una vita senza affannose cure, una navigazione senza temuti pericoli, un viaggio in placidissimo sonno. Però a far perdere all’uomo tanto guadagno il suo eterno nemico mette in opera tutte le arti infernali.

57. «Son d’avviso, diceva S. Teresa, che il demonio, vedendo non esservi cosa tanto atta a farci giungere al colmo della perfezione quanto l’ubbidienza, faccia tutti i possibili sforzi con mille svariati pretesti per disgustarci di questa virtù e farci trovare difficile il praticarla. Chiunque farà seria riflessione su di questo, lo troverà senza meno per propria esperienza verissimo. Non è forse chiaro fino all’evidenza che l’alta perfezione non è punto riposta in consolazioni interne, rapimenti, visioni o dono di profezia; ma tutta consiste a rendere la nostra volontà talmente conforme e sommessa a quella di Dio, che noi di tutto cuore ascoltiamo quanto egli vuole, senza metter differenza fra il dolce e l’amaro in tutto ciò che ci vien presentato dalla sua mano divina? Confesso che è difficilissimo il far cose tanto contrarie al nostro naturale e farle con piacere, ma in questo appunto apparisce la forza dell’amore perfetto.
Soltanto questo è capace di farci dimenticare ciò che contenta noi, per non pensare che a contentare colui il quale in forza di quell’amore, regna da solo nei cuori nostri.
Poiché è abbastanza certo che i travagli; per quanto grandi si vogliano, ci sembrano dolci allorchè riflettiamo che essi sono piacevoli a Dio».

58. Ed a ricalcare questi santi concetti della serafina del Carmelo facciamo attenzione a quel che dice Bernardo su certo insegnamento di S. Pietro. Il principe degli Apostoli scrivendo ai nuovi cristiani raccomandava di purificar le anime loro con l’obbedienza d’amore. E S. Bernardo trova in questa sentenza raccolta, la necessaria dottrina ad ammaestrarci delle veraci fattezze e della giusta forma dell’ubbidienza! Collo spogliare il cuore d’ogni attacco, col mortificarne ogni sregolato affetto, col vuotarlo d’ogni osa estranea a Dio, insomma nell’obbedire spinti dall’unico e semplice motivo del divino amore, possiamo pervenire al colmo della perfetta obbedienza.
Che eccellenza perciò, che nobiltà, che grandezza si nasconde in ogni minimo atto d’ubbidienza! Il diletto dei Sacri Cantici sentivasi ferito il cuore anche da un sol capello dell’amata sua Sposa, anche da un suo istantaneo sguardo.

59. «La più leggera osservanza, dice un pio autore, addiviene preziosa semente dell’eternità. Un pensiero, un sentimento, un desiderio, una parola, uno sguardo, un gesto, le azioni più comuni, le più umane, le più indifferenti, le più basse in se stesse, le più servili, son cangiate in atti di religione e di pietà. L’inazione stessa è meritoria quando l’obbedienza ci comanda di non operare».

60. Ed il motivo d’amore che dev’essere il movente nell’ubbidire riceve una grande spinta dallo studiare la vita di Cristo e copiarla in noi. «Noi dobbiamo, così esortava S. Francesco di Sales le sue religiose, noi dobbiamo contentare il santissimo Amore delle anime nostre Gesù, il quale dimanda dalle care sue spose una santa imitazione della perfetta ubbidienza che Egli rese non solo alla giustissima e buona volontà del suo eterno Padre, ma a quella ancora dei suoi parenti, e quel che è anche più, dei suoi nemici, i quali senza dubbio seguirono le loro passioni nel tormentarlo, eppure il Buon Gesù non lasciò di sottomettersi dolcemente con umiltà e con amore.
E la parola che egli disse di prendere la sua croce e di seguirlo, manifestamente deve essere intesa di ricevere di buon cuore le contraddizioni che ci vengono fatte in tutti gli incontri della santa ubbidienza».

61. Ed è questa dottrina appunto conforme a quella dell’Apostolo agli Efesini: «Servite, ei loro diceva, nella semplicità del cuor vostro come a Cristo: servendo non all’occhio, quasi per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, facendo di cuore la volontà di Dio, con amore servendo, come pel Signore, non come per gli uomini». Insomma con modi così caldi e vibranti S. Paolo voleva escludere il puro timore o il motivo di acquistarne la grazia nel sottomettersi al superiore. Così non è mica avvilimento o viltà, ma vera grandezza di animo il rassegnarsi alla volontà di Dio in quella dei Superiori.

62. L’ubbidiente non guarda affatto in costui la sua età, i suoi talenti, le sue maniere, le sue attrattive, le sue influenze, ma unicamente la persona che rappresenta. Allora come molle cera liquefatta al fuoco dell’amore dopo lasciato imprimere il suggello di Gesù nel cuore coll’amarlo, sel farà anche imprimere sul braccio coll’operare per cara obbedienza.

63. Il Superiore del monastero, dice al nostro proposito 5. Benedetto, fa le veci di Cristo. Quindi S. Basilio e S. Bernardo applicano come dette a tutti i superiori le parole di Cristo: « Chi ascolta voi ascolta Me, chi disprezza voi disprezza Me». Laonde con un devoto abate conviene ripetere: «Chi obbedisce ai superiori nello stato religioso, obbedisce a Dio stesso. Quasi non più si ravvisa in quelli il carattere dell’uomo: l’arbitro delle nostre volontà manifesta quella di Dio, I suoi ordini sono sacri oracoli; i suoi avvertimenti, consigli dell’Altissimo; la sua voce, voce del Signore; le sue leggi, decreti del Legislatore supremo. Egli parla ed è Dio che comanda, che concede, che rifiuta, che prende, che istruisce, che consola, che governa. Il religioso si sottomette, ed allora eseguisce appunto i comandamenti di Dio, sono adempiute le volontà di Lui, sono attuate le sue intenzioni; insomma come se Gesù Cristostesso apparisse, e con la sua propria bocca intimasse i suoi ordini.

64. Anzi v’è di più, se potesse supporsi un’apparizione tale mera illusione di fantasia, mai però l’ubbidiente potrrebbe andare illuso nella sua ubbidienza, che è fondata sulla parola infallibile di Dio. Non può a meno allora l’ubbidiente’, giusta la parola dello Spirito Santo nei Proverbi, riuscir vittorioso su di tutto. Riporterà vittoria sugli avvenimenti esterni, chè non vi riconosce che il divin beneplacito; sull’amor proprio interno avendone demolito l’altare della propria volontà; sulla carne che ha perduto il fomento dello spirito; sul mondo a cui ha fatto ampia rinunzia; sul demonio che ha perduto con chi cospirare internamente; sulla vita, di cui egli si è formata una mistica morte; sulla morte, col di cui estremo anelito egli comincia la vera vita; su Dio medesimo, che ha promesso far dono di sua divina volontà in cielo a coloro che immoleranno per Lui la loro volontà sulla terra.

65. Da questo naturalmente risulta che il vero ubbidiente sarà il più grande virtuoso. S. Agostino riconosce nell’ubbidienza la sorgente e la madre delle virtù; e ciò soggiunge appunto S. Gregorio perché tutte le produce e le custodisce. In quella sarà la giustizia, riparandosi coll’obbedienza al cattivo uso fatto di nostra libertà. L’umiltà, perché sottomettendoci interamente riconosciamo la nostra estrema bassezza. La pazienza, rassegnandoci a tutto ciò che verrà imposto di penoso alla nostra natura. La prudenza, col lasciar la guida cieca che è ognuno a se stesso, e farsi guidare da chi è illuminato da Dio. La penitenza, accettando i più duri comandi in isconto dei nostri falli. La mortificazione, reprimendo i moti dell’amor proprio a riuscir sottomessi. La dolcezza, col cedere ai superiori si guadagna l’abito a farlo con tutti. La discrezione, perché siamo infrenati nei limiti dei nostri doveri. La fede, vedendo l’autorità di Dio nei nostri superiori. La speranza, col diffidar di noi, confidiamo più in Dio e da Lui ci aspettiamo più potenti soccorsi. La carità, poiché coll’ubbidienza facciamo il massimo dei sacrifici ch’è quello della nostra libertà.

66. Che se la virtù dell’ubbidienza è in sè la madre generatrice di tutte le virtù, per le Vittime dei SS. Cuori è assolutamente e in modo tutto speciale il perno su cui s’aggira tutta la loro vita, il balsamo di cui debbono andar profumati tutti i loro respiri, il fondamento su cui s’innalza tutto l’edificio di loro sante operazioni, insomma lo spirito essenziale d’ogni loro operazione. Quando l’anima giunge a perdere interamente la propria volontà in quella di Dio, avendola estinta e seppellita nella tomba dell’ubbidienza, secondo il linguaggio di S. Giovanni Climaco, allora ella non vive più di sua vita propria ma vivendo la vita del suo sposo divino, addiviene un olocausto perfetto, una perfetta vittima immolata a Dio con Gesù Cristo.

67. Il cuore di questo Verbo fatto carne non faceva nienle da sè ma tutto lasciava fare in lui alla volontà di suo Padre; questa era il cibo che l’alimentava nella sua vita; questa il regolatore dei suoi palpiti, questa il rigoroso movente che l’ebbe esinanito e lo trasse alle agonie, alla passione, alla morte, ed alla morte di croce. In questo divino modello formaronsi i due Cuori di Maria e di Giuseppe e furono le due prime perfette vittime che immolarono intera la loro volontà con quella di Gesù.

68. E potrebbe poi un’anima pretendere mai di chiamarsi ed essere vittima dei SS. Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria senza voler veramente morire alla propria volontà per vivere unicamente in quella di Dio? Se deve vivere una vita di sacrificio e così essere vittima vivente, deve contrassegnare con quella i giorni, le ore, i momenti; e così ogni passo per lei, ogni parola, ogni azione sarà un atto di ubbidienza e perciò una nuova immolazione. Così tutti i momenti del viver suo che sono spesi e contrassegnati col suggello dell’ubbidienza, perché niente pensa, niente dice, niente fa che non sia a norma della santa obbedienza formano una catena di prolungato sacrificio nella quale l’ultimo anello rannoda alla croce il paradiso.

69. Ma questo prima di perfezionarsi nel cielo comincerà dalla terra. Ed avventurata davvero sarà, la Comunità delle Vittime, dove le Religiose tutte saranno beate serve di Dio che stanno sempre avanti al!a sua presenza, come diceva la Regina Saba dei servi del Re Salomone; saranno in particolar modo cittadine dei Santi e familiari nella casa di Dio, come si esprime l’Apostolo; ministre applicate a far sempre la sua santissima volontà, secondo parla il salmista; angeli attorno al suo divin trono sempre intenti ad accogliere i cenni della sua voce, sempre pronti ad eseguire ogni suo verbo, giuste le parole di Davide.

70. Conservandosi lo spirito dell’Istituto ogni Vittima entra nelle vedute dei Superiori, ne segue le intenzioni, ne previene i desideri, apre loro il proprio cuore, svela le interne sue pene, s’abbandona alla di loro condotta, si calma ai loro cenni, tutto accetta dalle loro mani, niente fa se non voluto da loro. Insomma a dirla in breve, la vera vittima è un’anima ben risoluta di morire alla propria volontà, sempre lieta e vigorosa nell’intrapresa carriera, non cammina ma vola sulle ali dell’ubbidienza e sormontando ostacoli, non guardando a pericoli, beffandosi delle voci di nostra natura ribelle, si eleva a regioni altissime di perfezione.

71. Che se poi fra le Vittime vi fosse una debole ritenuta zoppicante nell’obbedienza, sarebbe una dissonanza nell’armonia. Peggio poi se qualcuna fosse ribelle all’ubbidienza, sarebbe chiamata da S. Antonio ubriaca di sua volontà, dal Tritennio apostata e diabolico mostro, da S. Benedetto cuore corrotto ed abominevole agli occhi di Dio, dai Proverbi testimone bugiardo nella sua opposizione alla divina verità, dallo stesso Spirito Santo nel libro dei Re, infedele idolatra che adora l’idolo del proprio arbitrio.

72. Acciocchè mai nell’avvenire avesse ad incogliere tanta sciagura all’istituto delle Vittime dei SS. Cuori di Gesù di Giuseppe e di Maria, s’applicheranno tutte indefessamente a ben ponderare, approfondire e premurosamente osservare le seguenti Regole:
I) Oltre l’ubbidienza dovuta al Vescovo, al Superiore Sacerdote ed al proprio Confessore, le novizie dipenderanno dalla loro maestra, le probande dalla loro Prefetta o Viceprefetta, le converse parimenti dalla loro Prefetta, e tutte dalla Madre Superiora di tutta la Comunità.
2). Riguarderanno soltanto l’autorità di Dio in loro senza mai lasciarsi guidare da affezione naturale, né spingere dalle loro buone qualità o arrestare dai loro difetti.
3) Si tengano indifferenti a quanto Iddio vorrà disporre di per mezzo dei superiori. Perciò si astengano dal far pervenire a questi per vie indirette i propri desideri, sia per uffici da occupare, sia per azioni da compiere. Sarebbe allora far piegare la volontà dei superiori alla loro, perdendo il merito dell’ubbidienza.
4) si terranno disposte nel loro interno quasi in un’abituale prontezza e sul punto di ascoltare sempre la voce di Dio sensibile sia per la bocca dei Superiori, sia per mezzo dei segni comuni per cui saranno chiamate.
5) Ubbidiranno prontamente senza pigrizia, senza replica, senza scusa, dovunque, sempre e in tutto ciò che sarà loro imposto dai superiori, per amore di Dio, di cui questi sono i rappresentanti. E se credono aver buone ragioni in coscienza a far differentemente, non è loro proibito dichiararle sommessamente ad essi e starsi poi tranquille alla loro qualsiasi decisione che debbono prontamente eseguire.
6) Osserveranno con gran semplicità e ciecamente il disposto dall’ubbidienza senza mai arrestarsi internamente a discutere o sofisticare sul perché, e sulla ragionevolezza delle cose superiormente ordinate. Tutti i santi ed i maestri della vita spirituale fortemente raccomandano questa ubbidienza cieca.
7) Eseguiranno alla lettera il tutto imposto dall’ubbidienza senza mai darvi interpretazioni conformi al proprio gusto od inclinazioni, quali non mancherà di suggerire la nostra industriosa natura.
8) Stiano accorte non solo ad accettare con la volontà ma anche ad approvare con l’intelletto ogni cosa comandata e riconoscendola a lume di fede come parto della divina volontà, giudicarla migliore di ogni altra cosa che si fosse potuto comandare in quell’occasione. E questa, dice Cassiano, la vera pratica a divenire sapienti facendosi stolto, giuste le parole dell’Apostolo: Stultus fiat ut sit sapiens.
9) Allorchè per la natura che ripugna o pel demonio che tenta, provano rincrescimento al principio o in progresso dell’opera voluta dall’ubbidienza, si mettano davanti agli occhi Gesù con la croce sulle spalle che le invita a seguirlo più oltre, e sentiranno nuova lena a perseverare sino alla fine con diletto e con gioia.
10) Stiano attentissime a non muovere mai lamento, né mormorare sia tra sè, sia con altre, sia internamente, sia esternamente. Sarebbe, rifletteva Agostino, sulle parole dell’Ecclesiastico, come la ruota del carro che stride sotto il carico di fieno ed è il cuore di un religioso stolto che sotto l’ubbidienza va mormorando.
11) Se avranno per poco esitato o addotto una scusa per interna ripugnanza ad ubbidire, si metteranno subito in ginocchio chiedendo perdono e qualche salutare penitenza a sentire migliore sprono all’ ubbidienza in avvenire.
12) S’applichino, come dicono i Proverbi, a meditar l’ubbidienza (mens iusti meditatur oboedientiam) con lo studiare i desideri, indovinare le volontà, prevenire i comandi dei loro Superiori.
13) Abbiano infine le Vittime sempre nella mente e nel cuore l’ubbidienza tanto amata e praticata dai tre Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria. E soprattutto non perdano di mira Gesù nel Sacramento, che al cenno dell’uomo vi discende dal cielo e si lascia prendere, portare, riporre nel Tabernacolo dalle sue mani per darci un tipo di perfetta obbedienza.

 

Povertà

73. E’ virtù assai bella agli occhi di Dio la povertà e gratissima al suo cuore divino, come quella che spinge le anime più speditamente la via della Santità e più strettamente congiungersi al loro amato Bene. Basta per quei che sono in mezzo al mondo il non attaccare per nulla il proprio affetto ai beni, ma quanto è difficile, dice Agostino, l’esserne in possesso ed averne il cuore staccato. Perciò dava Cristo al giovane facoltoso del Vangelo un consiglio di alta perfezione e dicevagli: «Se vuoi essere perfetto vendi tutto quello che hai, fanne pronta distribuzione ai poverelli, e datti a seguirmi col calcar le mie orme ed imitare i miei esempi).

74. Né soltanto lasciò Cristo, come sprone a quella virtù il modello di sua vita povera, volle anche promesso il regno dei Cieli ai poveri di spirito, ed il possesso della vita eterna a chi abbandona tutto per Lui. E dietro queste parole fattasi una gran luce alla mente di tanti eroi del Cristianesimo, con fede vivissima studiarono quel modello, pregustarono quelle promesse, e dopo uno sguardo ben fisso, penetrante, acuto a Gesù Crocifisso sul Calvario e poi glorificatore dei Santi nel Paradiso corsero negli eremi, nei chiostri, in tante Comunità religiose, seguirono volentieri la povertà, amarono caramente la povertà, assaporarono con diletto le pene e le sofferenze della povertà.

75. Ed oggigiorno vuole Gesù Cristo rianimata questa virtù più particolarmente in talune anime come bel contrapposto divisato da Lui, sì al raffreddamento della povertà in tante anime che vi erano chiamate, sì per la crescente fame delle ricchezze nei ciechi mondani, come pel culto insano all’idolo dell’oro nei tanti che nulla veggono al di là di questa vita. Perciò queste anime a ben rinnovellarsi nell’amore di povertà vera debbono ispirarsi continuamente alla dottrina di tanti Santi i quali la raccomandavano come verace ricchezza, come apparecchio al gran conto da dare a Dio, come mezzo all’acquisto del Paradiso, come sicuro nodo di religiosa comunanza, come ritratto della vita di G. Cristo, come fonte d’inesprimibili consolazioni sulla terra.

76. Vediamola partitamente in quello che son venuti dicendo alcuni santi: La venerabile Serafina da Capri così parlava alle sue Monache: «La bellezza della vita comune delle sante religiose che l’osservano, è vita venuta dal cielo, che nostro S.G. Cristo la prese dalla sua Deità: la pigliò dal comune bene del Padre del Figliuolo e dello Spirito Santo, e la palesò in terra, e i santi poi l’hanno pigliata da Nostro Signore G. Cristo. Vita tanto bella tanto nobile della santa comunità, che tanto piace a Dio Benedetto, ed è di tanta nostra beatitudine.

77. Parlando poi specialmente della povertà da osservarsi in questa vita comune diceva: «La santa povertà, non con altro nome la chiamo che vera ricchezza e posto altissimo dell’anima dotata di luce chiara di verità, per vedere le cose e stimarle per quello che sono». Ne dà sviluppo sull’ esempio di G. Cristo che essendo luce di verità dispregiò ogni cosa terrena, e se l’avesse stimata si sarebbe mostrato bisognoso e non infinitamente ricco quale era. Perciò quando l’anima è tutta unita a Cristo e trovasi con Lui orti delle sue sovrane e preziose ricchezze, disprezza come cose da nulla quelle della terra.

78. “Questo stato luminoso di verità e ricchezza fa stimare le cose per quel che sono, fa conoscere che il possedere qualche cosa terrena è povertà e miseria; e il non voler niente è stato nobile e ricco, perché è tutta ricca l’anima non vuol niente di questa miseria non avendone bisogno, né essendo per lei, ma per li poveri accecati, ottenebrati e gabbati del mondo».

79. Questi sono in continue ansie ed angosce per quel che hanno, ma un’anima che non vuol niente dalle cose di questa vita «se ne sta nel suo dominio che è fuori della terra, nell’abitazione e regno di pace e nessuna cosa la contristato o dà timore, di niente si cura, sempre è tranquilla, come dice Davide: «Cum dederit dilectis suis somnum, ecce hereditas Domini». Solo con un dolce sonno che è lo scordarsi di ogni cosa della terra, son fatti eredi del Signore e come eredi sono principi e signori anch’essi.
80. S. Girolamo allora quando volle destare grande amore alla povertà nel cuore delle religiose, sue spirituali figliole ed ordinar loro duri letti di paglia, di strame o semplice legno su cui domar le loro membra, cibi scarsi, grossolani e non gustosi al palato, da nutricarsene solo per fame, vesti di rozzo ed abietto panno come si conviene addosso a corpi morti nei loro sepolcri, quali sono le monache nei monasteri; cominciò dal raccomandar loro la memoria terribile dell’universal Giudizio. «In nessun giorno, ei diceva loro, in nessun’ora vi si partano dalla mente queste cose. Ogni muro, ogni angolo del convento apparisca negli occhi vostri di tale giornata dipinto. Se non si tralascerà questa lezione, allora vi compiacerete della povertà».

81. Chi avesse dimandato, così parlava S. Francesco di Sales, a quei santi religiosi i quali anticamente vivevano nei deserti: O gran Santi chi vi ha ridotti in questa sì grande povertà e nudità? E chi fu che vi ha così spogliati d’ogni cosa? Avrebbero risposto: E’ stata quell’ammirabile povertà alla quale è promesso il Regno dei cieli, che ci ha fatto abbandonare tutto e patire in questa maniera.
82. S. Vincenzo de’ Paoli diceva: «La povertà è il nodo delle Comunità e specialmente della nostra. Questo è il nodo che, sciogliendola dalle cose della terra, l’attaccherà perfettamente a Dio».

83. Il nostro S. Alfonso de’ Liguori così parlava delle sue religiose: «Se il loro spirito non sarà vuoto degli affetti ed inquietudini per le cose terrene, non potrà mai riempirsi di Dio; pertanto ameranno esse la povertà più che i mondani le loro ricchezze, ambiranno di esser povere ed in tutto».

84. Facendo riflettere una volta il padre Luigi Granata al venerabile P. Maestro Giovanni d’Avila che S. Francesco d’Assisi aveva amato e raccomandato la povertà per due i,in beni che si trovano in lei: l’uno è il tagliar la radice di tutti i mali che è la cupidigia; e l’altro perché il religioso resta libero a meglio occuparsi nella contemplazione delle celesti, rispose quel gran Servo di Dio: «che la principal ragione del glorioso Padre S. Francesco era l’amor grande e molto tenero che portava a Cristo: e per questo vedendolo nascere e vivere così povero, che non aveva sopra il che poggiare la sua testa, e soprattutto morir nudo in croce, non poteva egli aggiustarsi a vivere e morire altrimenti, che come il suo diletto ed amato Signore visse e morì».

85. E qui giova assai il riflettere che Iddio in quelle anime che premurose imitano la povertà del loro sposo Gesù, non manca infondere tale unzione di grazia da farle saggiare un gaudio inesprimibile sulla terra.

86. Parlando S. Teresa dello stato miserabilissimo in cui versava di estrema penuria di tutto, insieme con le sue religiose nella fondazione del Monastero di Toledo s’esprime in questi sensi: «Quella povertà in cui ci trovavamo riempivaci di tanta consolazione e gioia, che io non posso rammentarmene senza ammirare i gran tesori che Dio nasconde nelle virtù; ma poco durò quel contento essendo ben presto fornito di tutto della altrui carità. lo non sentii nell’animo mio minor pena di quella che provasse un avaro nell’essergli rapito un oggetto d’assai grande valore, e non meno fu grande quella delle mie compagne. Così chiedendo loro il perché dell’esser loro sì triste: E come non esserlo, Madre, mi risposero, mentre ci sembra di non più esser povere? Da quel giorno crebbe tanto il mio amore per la povertà, e talmente mi sentii elevata al di sopra d’ogni desiderio di cose temporali, che queste mi appariscono indegne di esser considerate, pensando che il vantaggio d’esserne prive mette l’anima in tale stato di tranquillità da non aver bisogno di nulla).

87. A chi poi volesse conoscere la misura dello studio a mettersi da una religiosa per acquistare la vera virtù della povertà ascolti quello che dice in proposito il P. La Colombiere: «Rappresentatevi con quante cure si occupa un avaro ad aumentare e conservare il suo tesoro: ecco in certa guisa il modello d’una vera religiosa riguardo alla povertà. Se ella vuole che G. Cristo viva nel suo cuore, se desidera di giungere alla perfezione del suo stato, la povertà deve essere il suo tesoro; deve avere per essa le medesime premurose cure che ha l’avaro per le sue ricchezze».

88. Concludiamo con riflessione pratica dell’amabile S. Francesco di Sales: «La rinunzia d’ogni proprietà e l’esatta comunità d’ogni cosa è un punto di grandissima perfezione.. Le religiose sono in estremo pericolo di lasciar d’esser sante, quando contraddicono e s’oppongono all’introduzione di un’osservanza sì santa;… che rende le Religiose ricche nella loro povertà, e perfettamente povere nelle loro ricchezze; essendo il mio e il tuo le due parole, le quali come dicono i Santi, hanno posto in rovina la carità.

89. Niente serve a dire il nostro velo, la nostra veste, le nostre camicie, se in effetto l’uso loro non è indifferente e comune a tutte le Monache; essendo poca cosa le parole, se gli effetti non corrispondono. E come può essere, ditemi, comune una cosa, di cui non me ne servo che io?

90. Veggo che tutta la difficoltà di questo articolo si riduce alla delicatezza di alcune Monache circa le camicie e biancheria; resto ammirato che il bucato non basta per questo effetto,.. Certamente che se il delicato si offende di portare un panno lavato, perché è stato portato da un fratello cristiano innanzi che fosse lavato, non so come ardisca egli dire che ama il suo prossimo come se stesso. Bisogna che egli abbia un grande amor proprio, che lo faccia stimare così netto in paragone degli altri!»

91. Richiede poi il Santo che quest’anima povera di tutto, sia ben disposta a qual si voglia disagio che potesse occorrere in conseguenza della medesima povertà. Non basta, ei dice, non basta certamente d’essersi fatto religioso, e di aver lasciato tutto per rendersi povero se dopo si arriva a volere che nessuna cosa ci manchi.

92. Fare il voto di povertà e non voler risentire incomodo alcuno, ma desiderare, nonostante il voto, d’aver i suoi comodi come prima: ah! che una tal povertà è imperfetta e a Dio disgustosa.

93. Al certo che non è di questa povertà che Nostro Signore intende parlare: e non è quella che Egli ed i Santi suoi hanno praticato! Egli è morto nudo sopra la croce, ed i suoi santi lo hanno imitato abbandonando tutto e coraggiosamente esponendosi a soffrire tutti i disagi che la povertà seco porta.

94. Adunque le Religiose Vittime dei SS. Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria si daranno con più alta perfezione secondo richiede lo spirito del loro Istituto, all’acquisto di sì cara virtù mediante l’esatta osservanza delle seguenti regole.
1) Nell’istituto delle Vittime si osserverà sempre comunità perfetta, né quelle saranno mai proprietarie di cosa alcuna che è nella casa; ma tutti gli oggetti di questa saranno di uso comune. Non si permetterà l’uso d’alcuno oggetto prezioso a meno che non fosse addetto alla Cappella per uso del Culto.
2) Metteranno le Vittime ogni studio a ben custodire ogni cosa perché proprietà della comunità, e nulla fare che potesse farne sprecare più del necessario. S. Benedetto voleva che tutti gli oggetti, parimenti come i vasi consacrati per l’altare, fossero tenuti in conto di santificati come cosa di Dio nella sua casa.
3) Baderanno che il dare o ricevere qualunque minima cosa è una ferita fatta al voto di povertà. Solo sarebbe permesso quando per ragionevoli motivi sarà permesso dall’ubbidienza.
4) Ciascuna religiosa baderà bene non usar mai le parole mio e tuo; ma di ogni oggetto dirà sempre nostro e vostro.
5) Non dirà mai parole di lamento ove abbia cosa di meno, o più tardi o più vile di quella che potesse avere un’altra, dovendo ciascuna tenersi a gara come la più povera di tutte.
6) Al principio di ogni anno si farà cambiamento di stanza, di celle e di posti secondo sarà designato dall’ubbidienza. A meno che la superiora non disponesse diversamente per talune a motivo di salute, d’ufficio o d’altro. Si lascerà tutto a suo posto, anche libri, rosarii, immagini, quali similmente si troveranno nella nuova cella dove si andrà.
7) Non saranno mai sollecite dell’avvenire; ma abbandonate interamente nelle mani di quel Dio che ha promesso far mancar il necessario pel corpo a chi ben s’occupa dell’anima, anzi esser prodigo di più temporali doni a chi i v’è attaccato col cuore.
8) Ciascuna come vera povera, l’uso del necessario alla terrà concesso a gran carità. E per giungere a questo spogliamento cerchi di prender di mira la povertà del suo sposo Gesù nella stalla di Betlemme, sulla Croce ed in sacramento.

Castità

95. Per conservare come conviene la purità dell’anima e del corpo, le spose di G. Cristo saranno vigilanti sempre ed useranno questi mezzi:
1) Riconoscendo la propria fragilità e debolezza, cautamente eviteranno ogni pericolo prossimo ancorchè leggero; e con tutta la fiducia invocheranno l’aiuto potente dello sposo diletto, della Vergine Madre, dell’Angelo Custode e di S. Giuseppe.
2) Ad imitazione dei Santi custodiranno con gelosa modestia i sensi esterni ed interni, freneranno e passioni con la mortificazione e con sante occupazioni d’animo e di corpo fuggiranno dall’ozio e dalle fantasticherie.
3) Ameranno Dio e il prossimo con tutto il cuore e saranno pronte a servire tutti secondo la Regola e l’ubbidienza; ma non avranno relazioni inutili con le persone esterne, e nessuna amicizia particolare nè con esterne, né con interne.
4) Quando saranno obbligate a trattare con persone d’altro sesso, non si dimenticheranno della presenza di Dio, e lo faranno con brevità, gravità e modestia e, per quanto è possibile, con la compagnia di una terza persona.
5) Se mai non volendo incontrano qualche pericolo per la bella virtù, fuggano immediatamente, invocando con fervore l’aiuto del cielo, e con tutta semplicità, espongano la cosa ai Superiori che penseranno a provvedere.
6) Se qualche cosa macchia ed offusca il candore del giglio della castità si ricorra al più presto al bagno salutare della penitenza, e siano certe che in questo sacramento ben usato trovano rimedio e preservazione.
7) Nelle involontarie tentazioni combattano valorosamente senza mai cedere con l’aiuto di Dio; abbiano pazienza se dura a lungo la tentazione ed anche fino alla morte.
«In simili angustie, disse a Paolo il Signore, ti basti la grazia mia». In questa grazia sta per tutti la sicurezza della vittoria e la gloria del trionfo.
Episcopio, IX gennaio 1875
Vescovo Francesco Saverio Petagna